Quando divenne presidente era molto giovane e molto, molto ricco; le foto sulle riviste lo facevano apparire più affascinante di quanto fosse davvero (la sua voce era stridula); nella seconda guerra mondiale era stato ferito e si era comportato da eroe; aveva pubblicato un libro che gli aveva valso il Premio Pulitzer; era già stato congressman ed era senatore degli Stati Uniti. Sette anni prima aveva sposato un’altrettanto giovane, ricca, bella e ambiziosa giornalista di nome Jacqueline Lee Bouvier. John F. Kennedy – Jack per gli amici, i familiari e per la pubblicistica che trattava lui e sua moglie, Jack e Jackie, come stelle del cinema – era predestinato a un posto nella storia. E alla storia appartengono i poco più di mille giorni della sua presidenza; mentre la sua morte immatura e violenta lo ha consegnato alla leggenda, facendone il Re Artù di una nuova Camelot.
I conti su quei «mille giorni», diventati titolo emblematico della biografia del suo amico e consigliere Arthur Schlesinger Jr., sono stati fatti da tempo. Le sue ambivalenze sul terreno a lui più congeniale, la politica internazionale, sono ben note e il giudizio è consolidato. Nessun dubbio sulla sua coerenza anticomunista e sulla sua adesione alle strategie del «contenimento» del comunismo messe in atto dai suoi predecessori. Tuttavia, alla prosecuzione lineare della Guerra fredda nel caso di Cuba, del Viet Nam e di Berlino fece da contraltare la sua apertura al centro-sinistra in Italia e la quasi provocatoria preferenza accordata al socialdemocratico Willi Brandt, borgomastro di Berlino e capo dell’opposizione al Bundestag, ricevendolo alla Casa Bianca prima del cancelliere Konrad Adenauer alla vigilia delle elezioni tedesche del 1961. All’imponente programma di riarmo e all’intensificazione dell’intervento in Viet Nam del Sud a fianco di Diem, il corrotto dittatore liquidato infine nel novembre 1963, in nome della «teoria del domino» (secondo cui se “cadeva” il Viet Nam lo avrebbero seguito gli altri stati del Sudest asiatico), Kennedy contrappose l’incontro con Krusciov a Vienna (1961) e la firma dell’accordo con l’Unione Sovietica sulla limitazione degli esperimenti nucleari (1963).
Ambivalente fu anche la sua politica nei confronti dell’America latina: da una parte, l’avversione per la Cuba di Castro, che l’avrebbe portato a perseguire l’obiettivo del suo rovesciamento e quindi al fallimento dell’invasione tentata nel 1961; dall’altra, la contemporanea adozione di una nuova attenzione per il resto dell’America latina, funzionale a isolare Cuba, testimoniato dall’istituzione del Peace Corps e dalla decisione di costituire una Alleanza per il progresso. Un capitolo a parte fu la «crisi dei missili» del ’62, che comunque testimoniò il realismo di Kennedy nella valutazione dei rapporti di forza nei confronti di Krusciov e dei pericoli di una guerra con l’URSS.
Kennedy veniva dalla soggezione al ferreo conservatorismo ideologico e di classe del padre, dal proprio apprezzamento giovanile per Hitler e Mussolini e, infine, dall’adesione totale alla cultura politica della Guerra fredda. Dai famosi dibattiti televisivi con Richard Nixon, che precedettero l’elezione del 1960, appare evidente che erano assai diversi i modi e lo stile dei due antagonisti, ma anche che le posizioni politiche non differivano di molto. Del resto, proprio alla fase finale della presidenza Eisenhower, di cui Nixon era il vice, era dovuto il primo ammorbidimento nei rapporti con l’Urss, rappresentato dallo scambio di visite del 1959: Nixon a Mosca e Krusciov negli Stati Uniti. Anche l’evoluzione della scena politica europea imponeva la modifica della diplomazia. In particolare, per il cattolico Kennedy non poteva non avere peso l’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII (1958). Poi, furono decisivi l’apertura di nuovi scenari con la visita di Adenauer a Colombey-les-deux-Églises e la sua stretta di mano con De Gaulle (1958) e, dopo il riavvicinamento tra Francia e Germania, il miserabile fallimento della svolta a destra del governo Tambroni in Italia nel 1960. Sulla disponibilità a cogliere questo nuovo – più che dalla retorica evocazione di una «nuova frontiera» per gli Stati Uniti – è stata ritagliata la silhouette del Kennedy proiettato nel futuro.
Furono anche gli avvenimenti «interni» a incrinare, se non proprio a sovvertire (come invece sarebbe successo al fratello Robert), le visioni del mondo ereditate dall’ambito familiare, dal ceto sociale e dal partito di appartenenza. Costretto a prendere atto delle lotte degli afroamericani, Kennedy arrivò infine, nel giugno 1963, a denunciare segregazione e discriminazioni razziali come un «problema morale» che investiva l’intera nazione. Non si spinse mai più in là. Arrivò ad avanzare una proposta di legge sui diritti civili, ma consapevole che portarla ad approvazione avrebbe comportato la rottura degli equilibri politici nel suo stesso partito e il «trasloco» dei democratici del Sud verso il partito repubblicano, lasciò che la proposta si arenasse. Sarebbe toccato a Johnson riprenderla e portarla al successo, estendendo anche alle donne la protezione legislativa dalle discriminazioni ed effettivamente provocando l’abbandono del partito democratico dei razzisti meridionali. Kennedy non nominò neppure una donna nel suo gabinetto di governo – a differenza dei suoi predecessori – e tuttavia fu lui a volere l’istituzione di una Commissione sulla condizione delle donne (1961) e, due anni dopo, ad avviare iniziative concrete per affrontare i problemi di discriminazione che la commissione aveva denunciato.
Proprio al pubblico femminile Kennedy dovette buona parte della sua popolarità al di fuori della politica. Nessuna ambivalenza o ambiguità sul terreno dell’immagine pubblica: non solo Kennedy fu il primo presidente degli Stati Uniti a godere di una straordinaria presenza mediatica, ma l’informazione fu sempre uniformemente reticente nei suoi confronti, tacendo sulle sue infedeltà coniugali e perfino sulla sua cattiva salute. I servizi fotografici su di lui e sulla sua famiglia – in casa, in vacanza, in barca, nelle occasioni mondane, con il bambino che gioca nello studio ovale… – diffondevano le immagini rassicuranti di una sana e felice «normalità» e di quella loro eccezionalità che ne faceva un modello per tutte le famiglie americane. E la ripresa televisiva di una sensualissima Marilyn Monroe che gli canta «Happy birthday, Mr President» fu presentata come null’altro che l’omaggio della più grande star di Hollywood al più popolare dei presidenti.
La favola mediatica che, lui vivo, conviveva con la problematicità della politica, divenne egemone alla sua morte. E anche l’assassinio del fratello, cinque anni dopo il suo, contribuì a tenere viva l’immagine della predestinazione insieme alla gloria e al martirio. La tragedia di Dallas fu la precondizione per la crescita della leggenda, imponendo la sospensione di ogni critica nei confronti dell’operato kennediano. Ed è significativo che sia stata Jacqueline a battere la nota su cui poi gran parte degli agiografi si sarebbero accordati. Fu lei, infatti, all’inizio di dicembre di quello stesso 1963, a parlare della sua presidenza come della «nuova Camelot». In un’intervista con il giornalista Theodore White, Jackie citò le parole che nel musical Camelot, allora in scena a Broadway, Artù pronuncia nel canto finale prima di morire («Don’t let it be forgot, that once there was a spot, for one brief shining moment, that was known as Camelot») e aggiunse: «Ci saranno altri grandi presidenti, ma non ci sara più un’altra Camelot…». L’immagine era forte e fece presa. Negli anni immediatamente successivi, quando l’escalation johnsoniana e poi la sconfitta in Vietnam, le rivolte dei ghetti urbani e le lotte operaie di fine decennio misero bruscamente fine alla «età d’oro» del capitalismo e della società statunitensi, il parallelo leggendario assunse il valore di un esorcismo. Ci vollero altri anni perché le brume della leggenda si dissolvessero, restituendo all’uomo e al presidente il pieno diritto a una propria umanità ricca tanto di coraggio, iniziativa e senso del futuro, quanto di ambivalenze politiche e debolezze personali.