Disse una volta Eric Hobsbawm, lo storico che del secolo passato è stato uno dei più acuti osservatori, che quando sentiva suonare musicisti come Charlie Parker, gli sembrava di ascoltare la voce dell’intero popolo afroamericano. Non un coro, neanche voci strutturate all’unisono, proprio un insieme non organico di strepitii sbraiti lamenti. Mille e più frammenti che raccolti in un’alchimia inspiegabile, si fondevano in una sola e poderosa voce. Amplificata, forte, chiara. Sono diversi decenni che tutte le migliori interpretazioni della cultura black hanno abbandonato la teoria secondo la quale si deve ricercare l’essenzialità ultima, la radice profonda. Meglio rintracciare i tanti percorsi e i semi di un popolo figlio della grande diaspora. La musica, al pari della letteratura, ha sempre svolto un ruolo decisivo nella formazione di questa identità e, ultimamente, il testimone di questa rincorsa, passato dal jazz al soul, dal blues al funk è in mano al mondo del r’n’b, dove l’hip hop ha un ruolo privilegiato.

Anche perché non è più solo hip hop come lo si praticava negli anni Ottanta e Novanta. È qualcosa di altro, che si rigenera, si nutre della contemporaneità, di temi sociali, di rivendicazioni almeno quanto di generi e stili prettamente musicali. Proprio questo succede nel nuovo disco di Kendrick Lamar, To Pimp A Butterfly, appena pubblicato, arrivato addirittura in anticipo di una settimana rispetto al previsto. Del resto l’hype attorno a questa nuova uscita è stato altissimo, da vertigini. Anche più di quello del lavoro dell’altro paladino nero del momento: il tormentato, ombroso, spericolato e più anziano D’Angelo, che ha da poco pubblicato Black Messiah, dopo quindici anni di assenza. Se nel suo disco si nota un certo egocentrismo, una sfrenata ricerca alla perfezione stilistica e vocale del rapper che faceva impazzire le teen agers di tutto il mondo per quegli addominali spaventosi, To Pimp A Butterfly spiazza perché la produzione è perfetta, accattivante, riesce a evocare almeno cento anni di storia e cultura del popolo afroamericano.

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Lamar è un artista rigoroso, passa la notte nello studio di registrazione, la mattina dorme e il pomeriggio sta ad ascoltare musica nella sua villa a tre piani a Compton, Los Angeles, non troppo lontano da dove è nato e cresciuto insieme al padre, la madre e tre fratelli più piccolini. Persino Kanye West, che ne ha sempre una per tutti, appena saputo della pubblicazione del disco di Lamar ha detto: «Kendrick è un’ispirazione». Terzo disco della sua carriera, fino ad ora erano circolati tre pezzi belli e possenti, è riuscito a condensare nei nuovi brani ciò che della cultura neroamericana è rimasto nonostante il percorso disgregante della sua storia. C’è persino George Clinton, icona assoluta del p-funk; c’è Bilal, che dopo anni trascorsi alla corte di J Dilla e Dr. Dre è a tutti gli effetti sempre più attratto dalle possibili declinazioni del nuovo jazz.

C’è Thundercat, bassista dalle ipertecnologiche capacità; c’è Snoop Dogg che però non fa lo Snoop Dogg solito, c’è la sorprendete Anna Wise. Una comunità, un insieme di voci, che solitamente guardando la copertina del disco sembra di sentirle tutte insieme: nessuno meglio di lui ha raccolto il desiderio di quelle migliaia di anime inquiete dell’America nera che desidera un reale cambiamento e che, per l’ennesima volta in questi ultimi mesi, si trova costretta a scendere in strada e protestare contro le violenze dei poliziotti, in memoria dei giovani freddati senza pietà. Lamar è riuscito a connettersi con tutta questa gente attraverso questo disco, simbolicamente dedicato al diciannovenne disarmato liquidato con qualche pallottola nel Winsconsin proprio cinquant’anni dopo la marcia di Selma guidata da Martin Luther King.