«Facciamo film per cercare di sovvertire, creare disordine e sollevare dubbi. «Scuotere, educare, organizzare. C’è bisogno di una scossa ed è quello che cerchiamo di fare: inceppare il congegno, stravolgere lo status quo, sfidare il racconto dei potenti». Così Ken Loach nel breve pamphlet pubblicato da Lindau («Sfidare il racconto dei potenti», pagg 56, euro 9). Ma il regista inglese rincara la dose: «La gioia nel creare un film sta nell’imprevedibilità delle relazioni interpersonali, in tutto ciò che fa di noi degli esseri umani. Le nostre fragilità, le nostre contraddizioni, le nostre sconfitte, le nostre incapacità. È questo che rende la realizzazione meravigliosamente esaltante». Dunque Loach cerca di rompere lo steccato che separa l’arte (cioè un artificio, un gioco della fantasia) dalla vita. E bisogna dire che nel suo modo di girare (oltre che nella sua filmografia) ci è spesso riuscito. Certo, il rosso Ken, che ci ha dato tanti film che amiamo, sottovaluta il pericolo della commistione tra arte e vita, quello di confondere i piani della fantasia con la vita reale. Loach pensa invece sia possibile «introdurre» il sociale nell’arte e rendere quindi l’opera immediatamente politica. Va detto che lo fa in modo intrigante in questo racconto rilasciato a Frank Barat, giornalista e attivista dei diritti umani. Prima di inoltrarsi nello smontaggio del giocattolo-film ufficialmente inteso, Loach anticipa la sua visione sociale: «Prima di tutto, siamo dei cittadini. Dobbiamo riappropriarci delle nostre vite. Siamo presi in un sistema economico inesorabile. È come essere a bordo di una macchina senza controllo». Per poi passare all’attacco dell’immaginario ufficiale: «Viviamo nell’ipocrisia di una società aperta e libera. Tony Benn coniò una bella espressione: disse che in Inghilterra non abbiamo bisogno del KGB perché abbiamo già la BBC. I potenti tollerano le persone che dicono cose ovvie e banali, mentre non sopportano chi interviene su questioni specifiche e attuali, sul qui e ora. Perché è pericoloso». Il suo modo di concepire e girare una storia ha un chiodo fisso: come svelare il trucco su cui si regge il «modo capitalistico di produzione» nella confezione di un’opera d’arte come un film. E così, fin dalla storia e dal soggetto, dalla sceneggiatura e dal girato, dal montaggio e dal rapporto con la musica e i suoni, è una continua lotta per l’uguaglianza tra attori e regista, maestranze e altri componenti dell’operazione. Un cinema che permette alle persone di rivelarsi, all’attore di essere credibile, alla storia di diventare corale, alla musica di aprirsi all’universale; il tutto per rimettere al centro il ruolo politico della cultura e l’arte come detonatore sociale. Dunque il regista inglese Ken Loach (trionfatore a Cannes) sale sul ring della sfida con i potenti dell’immaginario cinematografico e non. E bisogna dire che assesta colpi ben duri all’ordine (artistico) costituito.