Nella lezione inaugurale del corso tenuto durante il semestre estivo del 1789 all’università di Jena, Friedrich Schiller argomentava a favore dello studio della storia esaltandone il valore per il presente. Solo quello studio, sosteneva nel suo discorso, è in grado di dimostrare il valore e la necessità dell’oggi, la concatenazione logica che lo lega al passato e il suo significato per il futuro. La conoscenza della storia era, per il grande drammaturgo ispirato da Kant, il necessario correlato di ogni filosofia teoretica: solo dal riconoscimento della differenza ineliminabile fra totalità ideale e frammentarietà degli eventi storici poteva nascere quella consapevolezza dell’inesistenza di un’epoca universalmente desiderabile e superiore alle altre, e solo quella evidenza poteva far svanire il sogno regressivo di un’umanità bisognosa di rifugiarsi in un passato migliore. Ma per Schiller questo potere liberatore era comunque legato a una visione della storia come successione di fatti che, opportunamente trascelti, mostravano l’intima continuità e coappartenenza di presente e passato, il logico derivare del primo dalle conseguenze di fatti accaduti nel secondo.

Già un paio di mesi dopo la sua lezione, la Rivoluzione francese cercava di convincere il mondo della possibilità di riscrivere totalmente la storia e Herder, nelle sue Idee, ne metteva definitivamente in crisi qualsiasi ingenua visione unitaria. Ciò che ancora ci lega al pensiero apparentemente ingenuo di Schiller è la consapevolezza dell’irriducibile frammentarietà del reale, la coscienza del fatto che ogni evento oppone una dura resistenza al suo addomesticamento in un racconto compiuto.

Mutazioni della forma-romanzo
Walter Kempowski è stato il grande epico – lungamente incompreso – di questa irriducibilità del reale a una compiutezza ideale o anche solo descrittiva. Nella sua maggiore impresa narrativa ha infatti trasformato la forma-romanzo in un ibrido storico-documentale (i nove volumi della Cronaca tedesca usciti fra il 1971 e il 1984) in cui le storie della stessa famiglia Kempowski si alternano a volumi di interviste sul rapporto fra i tedeschi e le atrocità del regime nazionalsocialista in un caleidoscopio di voci e prospettive contraddittorie, che escludono anche solo la possibilità di una visione unitaria. Con il suo secondo opus magnum, i dieci volumi dell’Ecoscandaglio (apparso fra il 1993 e il 2005) in cui ha composto una rappresentazione corale degli anni della Seconda guerra mondiale limitandosi a combinare frammenti di diari, lettere e memorie di personaggi celebri e sconosciuti, ha realizzato in forma epica qualcosa che può essere paragonato solo a quella geniale, prima parte del Wallenstein schilleriano (L’accampamento di Wallenstein), in cui la realtà della guerra imminente è rappresentata attraverso le voci sparse, incongrue e quasi incomprensibili che si rincorrono negli acquartieramenti del generale boemo.
Tutto per nulla, il romanzo scritto un anno prima della morte, che appare ora nella fedele traduzione di Mario Rubino (Sellerio pp. 463, euro  15,00), è in apparenza più tradizionale, quasi un ritorno di Kempowski alla struttura classica dopo gli esperimenti narrativo-documentali dei decenni precedenti; ma l’apparenza inganna.

È certamente vero che la vicenda si sviluppa seguendo linee narrative riconoscibili, e il lettore può anche distinguervi gli echi di modelli che, probabilmente, Kempowski ha avuto ben presenti, per esempio l’attesa dell’avanzata francese nella tenuta di campagna dei Bolkonskij in Guerra e pace. La situazione descritta dal romanzo, del resto, è del tutto analoga a quella del modello. Nell’inverno del 1945 la proprietà dei von Globig nel villaggio di Mitkau, nella Prussia Orientale, viene investita dagli avvenimenti che preludono al crollo del fronte tedesco a est; le autorità cittadine seguitano a esercitare automaticamente il loro potere in nome di un regime che è prossimo a soccombere, ma pretende ancora il rispetto di comandi e norme assurdi; le donne assicurano l’ordine nella proprietà; l’unico bambino presente nella tenuta – che sembra anche l’ultimo rimasto in paese – cresce isolato fra sogni preadolescenziali e miti bellici; gli uomini sono lontani o sono morti. Eppure tutto procede nel solco di quella antica quotidianità che una ieratica «zietta» provvede a organizzare. Si verificano, qua e là, fatti incongrui (addirittura si concede, di nascosto, ospitalità a un ebreo), ma nulla scuote l’ordine tradizionale.

Appare così chiaro che il romanzo deve la sua forma ortodossa al rispecchiamento mimetico, sul piano della struttura, di un ordine che non c’è più ma che si può ancora far finta che esista, finché non deve cedere alla forza dei fatti. Le vecchie certezze sono travolte dalla marea di transfughi che attraversano nel loro esodo disperato i confini del mondo di ieri; la legge si manifesta in tutta la sua forza e insensatezza; fuori dal ristretto spazio dell’ordinata vita domestica svanisce ogni sicurezza e ogni possibilità di orientarsi in modo plausibile.
La famiglia von Globig si disperde e, proprio come lei, il romanzo abbandona il suo procedere classico e compassato. Inseguendo i suoi molti destini finisce per perdersi e per perdere persino i suoi protagonisti. Anche il lettore – in un finale grandioso che si compone di alcune delle pagine più straordinarie della letteratura tedesca degli ultimi decenni – deve rinunciare a sapere quel che vorrebbe e che nel suo ingannevole ordine il libro sembrava promettergli. Un colpo di genio.

Una biografia luterana
Del resto Kempowski è ben lungi dall’essere un autore rassicurante. E non solo per i temi dei suoi romanzi, non solo in ragione delle esperienze subite nella sua vita tempestosa (coscritto e orfano di guerra, arrestato con il fratello e la madre nel 1948 per spionaggio, rinchiuso in un campo di prigionia sovietico), ma proprio per la natura della sua visione della storia, che è un portato delle sue origini protestanti e della visione luterana del mondo come dominio del diavolo e caos in cui non giunge alcun riflesso dell’ordine divino.
La storia, anzi, per Kempowski, non è neppure un tema; è piuttosto una favola illusoria priva di qualsiasi consistenza reale. Grande scrittore dell’indifferenza del tempo nel quale figure di diversa grandezza compiono il loro destino per dissolversi lasciando tracce raramente visibili, Kempowski sembra oggi l’ultimo erede di una visione in parte meccanicista e in parte nietzschiana del divenire come unica realtà del mondo dinanzi alla quale la sola forma di compassione possibile è la testimonianza. E in quest’ottica andrebbe considerata più di quanto non accada la sua attualità, dal momento che in un’epoca di interrogativi ingenui e ritorni a semplificazioni storicizzanti egli oppone questa semplice domanda a chi si illude di poter anticipare la consapevolezza di una catastrofe a venire: se è troppo tardi, per cosa lo è?
Quando i von Globig lasciano la loro tenuta per mettersi in salvo insieme alle sterminate masse di profughi in fuga dai territori della Prussia orientale, la Germania ha già vissuto le atrocità del nazionalsocialismo, della shoah e della guerra. Per loro adesso è, forse, troppo tardi, per il mondo lo è già da un pezzo.