Non volava una mosca l’altra sera all’Opera di Firenze en attendant sua maestà Keith Jarrett. E continuerà a non volare per tutta la durata dell’esibizione, unica data italiana della nuova tournée (a sei mesi dall’uscita napoletana al San Carlo), due tempi serrati di 45 minuti, piano solo e solo improvvisazione. E solito cerimoniale. Porte chiuse, i ritardatari peggio per loro, niente foto, cellulari spenti, niente riprese video e audio, ovvio, e guai a chi tossisce. Altrimenti succede come a Parigi, che si alza e se ne va.

Ma a Firenze, Keith Jarrett, settanta anni lo scorso maggio, due nuovi album a primavera per Ecm (Barber/Bartók/Jarrett e Creation), era tutto sommato di buon umore, meno intransigente o bizzoso del solito: pur lamentandosi di avere freddo, uno spiffero lo tormentava sul collo, e sfregandosi le mani come davanti al fuoco. Poi qualcuno ha acceso il telefonino e scattato una foto. Sarà vero? Keith non aspettava altro. Va al microfono e detta le sue regole: «Vi autorizzo a picchiare il vicino se continua a fare una cosa del genere. Quando sarò morto allora potrete venire qui e fare tutte le foto che vorrete». Ma l’imprevisto, decantato da un accenno di sorriso, non guasta la serata né l’umore del Nostro. Che riprende il suo posto e elabora, ancora una volta in solitaria, la sua personalissima parabola sonora.

Si piega sulla tastiera fino a imprimersi nello strumento come una protesi surrealista, sghemba e gentile, un contorsionista che poi si alza sui piedi mugolando e canticchiando come un fantino sulle staffe del suo purosangue lanciato verso il traguardo. Velocità impervia e calma olimpica. Accensione e decompressione. Accelerazione e decelerazione. Impennate e arresti. Il motore Jarrret viaggia a pieni giri. Reinventando e improvvisando tutto il possibile. E oltre.

Una pacificata tensione fisico emotiva e un brivido disteso. Era la quarta volta che Keith Jarret tornava a Firenze, la terza da solo. Ma l’ultima al vecchio Comunale nel 2009 in trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette fu grandiosa. E pure qui alla fine, nei tocchi liquidi, nella impalpabile coloritura del suono che sfuma e svanisce, c’era come un’aura cechoviana, la dissolvenza della vita e la rarefazione dei ricordi. Scivolando nel tempo e nello spazio del tempo alla ricerca della «malinconia» e della «leggerezza» delle cose, Jarret traccia la sua linea. Imperfetta e inquieta. Come prima della rivoluzione.