In un’intervista rilasciata a Paul Cummings nel 1988, Ketith Haring aveva raccontato, con precisione di dettagli, un’esperienza «fondativa» agli inizi della sua avventura artistica: una mostra di Pierre Alechinsky vista al Carnegie Museum di New York. «Non avevo mai realmente scoperto la profondità di quel che Alechinsky stava facendo. Vedere duecento opere basate sull’idea che piccole sagome astratte potessero evocare delle forme – ci vedeva delle cose ma quelle cose non erano necessariamente lì». Era il 1975. Keith aveva 17 anni: siamo davvero a suoi esordi.
Nella mostra milanese aperta a Palazzo Reale (Keith Haring, about art, a cura di Gianni Mercurio, fino al 18 giugno; catalogo Giunti, 24ore cultura), mostra che ha messo a tema il rapporto tra Haring e l’arte che l’ha preceduto, Alechinsky non poteva mancare. Stranamente però ci viene proposto nella penultima sala, sacrificato in ragione della scelta di organizzare per temi il percorso. Scelta controproducente, perché una mostra centrata sul rapporto di Haring con la storia, per quanto forte di una dotazione di prestiti di grande qualità, finisce con restituire una storia confusa dell’artista. È un vizio a cui assistiamo cedere sempre più spesso, dettato dall’idea che lo sviluppo cronologico stanchi il pubblico per la sua presunta banalità. Invece sono in particolare autori dalla biografia «stretta» come Haring e spesso schiacciati in una narrazione senza sviluppi a guadagnare se presentati in una prospettiva cronologica. Un antidoto al rischio di vederli trasformati in feticci.
In questo modo si determinano delle situazioni un po’ paradossali, come nel caso della sala che presenta l’affascinante fregio su foglia di metallo messo in parallelo scenografico ma poco convincente con il calco di un frammento della Colonna Traiana, senza che venga spiegato perché, e in che occasione, Haring avesse realizzato quel progetto di insolita vastità.
«Umanesimo» è la parola chiave di questa mostra e della rilettura della figura di Keith Haring a ventisette anni dalla sua scomparsa. È la parola che apre le sequenze tematiche del percorso e che in effetti definisce l’orizzonte creativo e umano di un artista che come pochi altri ha avuto la preoccupazione prioritaria di dare una dimensione sociale e pubblica alla propria arte. «Il mio contributo al mondo è la mia abilità nel disegnare. Disegnerò il più possibile, per tutte le persone possibili, il più a lungo possibile… disegnare unisce l’uomo e il mondo». La sua è una pittura intrinsecamente ed esplicitamente generosa, anche nel momento in cui è chiamata a rappresentare tematiche cariche di negatività. All’inizio del percorso ci si imbatte in un’opera del 1981, uno smalto su metallo in formato quadrato, grondante segni su un magnifico sfondo viola. È il momento in cui la fantasia di Haring era stata ferita dalla morte di John Lennon, simboleggiata dal ripetersi di pittogrammi di omini con lo stomaco forato. In quest’opera viene narrata l’azione di un uomo che con la gamba tesa trapassa il ventre di una persona che gli sta davanti, a braccia alzate. Un atto di violenza e di sopraffazione, che produce in ricaduta una turbolenza magnifica di segni neri e grondanti smalto sulla superficie metallica. L’opera è drammatica, nel soggetto e nelle stesse dinamiche espressive: ma quelle braccia alzate della vittima alla fine, più che un atto di resa, sembrano un gesto di vittoria. È la vittoria dei giusti e in ricaduta anche della pittura concepita da Haring come strumento per rendere questa vittoria un’evidenza davanti agli occhi e alla consapevolezza di tutti.
Come racconta nel suo saggio in catalogo Demetrio Paparoni, Haring per tutta la vita ebbe a regolare i conti con i demoni della storia e del suo tempo presente, segnati con il passare degli anni dallo stagliarsi sempre più preciso dell’apocalisse dell’Aids. Ma anche di fronte a queste circostanze drammatiche che avrebbero stroncato la vita sua e di tanti suoi amici, Haring non vien mano alla fede in una funzione positiva del fare arte: «Per quanta preoccupazione questi dipinti possono contenere, non è tuttavia la paura che Haring voleva alimentare. Sebbene egli abbia più volte raffigurato l’inferno e la morte, la sua arte è essenzialmente votata a celebrare la vita», scrive Paparoni. Potremmo aggiungere che per questo si configura come arte sempre generosa, generatrice e diffusa: Haring esce dalla gabbia dei consueti supporti, sperimenta nuove forme libere a partire dai graffiti con gesso su carta nera opaca realizzati per la metropolitana newyorkese, che segnano l’inizio della sua avventura artistica (e che chiudono a Milano il percorso della mostra). Tra le forme libere ci sono i tanti magnifici «teloni» vinilici attaccati direttamente alle pareti, immaginati come dei murales mobili.
La generosità di Haring lo portava a lavorare ovunque e per chiunque senza nessuna preoccupazione di rispettare le regole del mercato. Lo dimostra una riscoperta recente di un lavoro attribuibile a lui a tutti gli effetti, in una casa in via Laghetto, a due passi dall’Università Statale a Milano. La riscoperta è merito di Giulio Dalvit con Giuliana Pignolo ed è stata pubblicata nel penultimo numero di «Concorso arti e lettere», rivista nata all’interno del Dipartimento di Storia dell’Arte della stessa Statale. Cronologicamente l’opera è da riferire al 1984, anno in cui Haring era a Milano per l’importante mostra nella galleria di Salvatore Ala. A quei tempi la casa era stata occupata da un gruppo di ragazzi dei centri sociali Leoncavallo e Conchetta. Immaginarlo lavorare gratuitamente e liberamente in quel contesto marginale racconta tanto di lui e di quella sua energia che non considerava bene proprio ma un bene per tutti e di tutti: un umanesimo che non era solo un’idea…