Keith Flint – vocalist e anima dei Prodigy, band simbolo della rave culture britannica degli anni Novanta e inizio Duemila – è stato trovato morto ieri all’alba nella sua abitazione nell’Essex.
La notizia, un fulmine a ciel sereno non solo per i fan ma per una generazione intera, è stata confermata ufficialmente con uno struggente post pubblicato sui canali social della band, in cui è stato rivelato che si è trattato di suicidio. Soltanto quarantanovenne, Flint – grazie anche al suo look eccentrico, ai suoi piercing e alla sua inconfondibile cresta punk – è stato il volto più conosciuto di una scena rivoluzionaria e irripetibile che ha portato la musica elettronica ad un nuovo livello di sperimentazione e popolarità.

LA STORIA dei Prodigy inizia nel 1989, ad un rave party come tanti nella cittadina di Braintree, nel Sud-est inglese. È in questa occasione che Flint, insieme all’amico di una vita e futuro compagno di palco Leeroy Thornhill, conosce il dj Liam Howlett. Affascinato dal suo set e convinto da un suo mixtape, lo persuaderà a produrre musica propria e ad assoldarlo sul palco come ballerino d’eccezione. Fin dai primi anni di carriera i tre, a cui si aggiunse poco dopo l’MC Maxim – vocalist originario della band – si distinsero per uno stile sfrontato e innovativo, in cui sapevano unire alle sonorità tipiche della nascente club culture inglese (trance, drum’n’bass, breakbeat, acid house e oltre) i ritmi tipici di generi all’epoca considerati inconciliabili con la musica elettronica, tra rock, impulsi psichedelici e campionamenti raggae, dancehall, jazz, soul e funky. È grazie a questa miscela conturbante che, insieme ai coevi e connazionali Chemical Brothers e Fatboy Slim, oggi sono ricordati come gli iniziatori del Big Beat, un genere a cavallo tra techno e punk caratterizzato da un ritmo incalzante ed irresistibile.

La svolta, sia di stile che di notorietà, per i Prodigy arrivò nel 1996, quando Keith Flint lasciò le vesti di scalmanato ballerino per prendere in mano il microfono: il singolo Firestarter – l’anno successivo inserito nel terzo album della band, The Fat of the Land – rivelò al mondo la sua voce, la sua energia incontrollabile e, grazie al celebre video che lo vedeva assoluto protagonista, il suo oscuro stile iconoclasta. Un punk prestato alla musica elettronica, simbolo di una band che ha saputo innovare e fare tendenza con qualcosa di davvero nuovo e mai sentito prima. Dopo quell’album, infatti, per i Prodigy si sono aperte le porte del successo planetario, tra concerti negli stadi, hit diventate tormentoni e album arrivati in cima alle classifiche di vendita nel Regno Unito. È anche e soprattutto a loro che è attribuito il merito – o la colpa, per i fan più integralisti e «gelosi» della prima ora – di aver portato la musica della rave culture, partita come fenomeno sotterraneo ed esclusivo dei sobborghi inglesi, a diventare un prodotto «mainstream» e trasversalmente popolare, di massa.

È ANCORA presto per sapere che ne sarà della band, e se i Prodigy continueranno a suonare anche senza una figura così significativa. Negli ultimi album – The Day Is My Enemy, del 2015 e il recente No Tourists, uscito lo scorso anno – Flint si era infatti cimentato non solo come cantante ma anche come autore di alcuni brani.
In ogni caso, per molti, la notizia della morte di Keith Flint è stato un traumatico risveglio, la brusca fine del sogno di una generazione che ha vissuto sempre al massimo, senza preoccuparsi del futuro e credendosi immortale. Senza dubbio, però, i Prodigy e il suo frontman sono stati veri e propri pionieri, la miccia originaria che ha generato un’esplosione destinata a durare per sempre. Insomma, usando le parole dello stesso Flint, sono stati loro i reali «Firestarter!