Tramontata l’era dei grandi del Novecento – la triade Tanizaki, Kawabata, Mishima – e fatta salva la persistenza di Murakami Haruki nelle nostre librerie, la letteratura giapponese che circola in Italia oggi è, in larghissima parte, opera di scrittrici. A orientare il mercato avrà forse contribuito il successo di Yoshimoto Banana, che negli anni Novanta è stata portabandiera di una nuova sensibilità – postmoderna e lontana dal «Giappone della bellezza» evocato da Kawabata nel famoso discorso per la consegna del Nobel –  il cui successo si riconferma a ogni uscita, a ormai trent’anni dal suo esordio italiano.

Sono due, in particolare, le generazioni di scrittrici le cui opere sono arrivate a noi: quella nata tra gli anni Cinquanta e Sessanta – di cui fanno parte, oltre a Yoshimoto,  Kirino Natsuo, Ogawa Yōko e Kawakami Hiromi, insieme a altre autrici che, diversamente da quanto è accaduto in Giappone, hanno avuto una fortuna effimera in Italia: Ekuni Kaori, o Yamada Eimi, ad esempio. E la generazione nata tra gli anni Settanta e gli Ottanta, di cui Kawakami Mieko, Murata Sayaka e Oyamada Hiroko sono forse gli esempi più rappresentativi.

Benché tacciata di «apatia» – soprattutto in contrapposizione alla precedente, che aveva animato i moti studenteschi del Sessantotto – la generazione di Kirino, Ogawa e Kawakami ha saputo infondere nella scrittura il proprio sguardo impassibilmente analitico sulla realtà, senza tuttavia escludere l’elemento fantastico. Aspetti, questi, particolarmente evidenti nell’opera di Kawakami Hiromi, il cui racconto d’esordio, «Kamisama» (Il dio), utilizza strategie narrative che la critica ha avvicinato al cosiddetto «realismo magico». Nel resoconto quasi banale da parte della protagonista di una giornata trascorsa nei pressi di un fiume dove famiglie e bambini si godono il refrigerio, si innesta un elemento fantastico: avrà come compagno di escursione, infatti, un orso antropomorfo. In modo analogo anche in Hebi o fumu (Calpestare un serpente), opera con cui Kawakami ha vinto nel 1996 il premio Akutagawa, la protagonista calpesta inavvertitamente un serpente entrato nel negozio in cui lavora, determinandone la prodigiosa sparizione, per ritrovarlo poi nel proprio appartamento sotto forma di una donna, che le ha preparato la cena e insiste nel dichiararsi sua madre. Nonostante abbia appurato la vera natura della donna, che di notte torna alla sua forma originaria di rettile, la protagonista sceglie di continuare a condurre con lei quella parvenza di vita familiare, il cui carattere di finzione si fa sempre più sfumato.

Nel tempo, Kawakami ha acquisito una certa maestria nel tradurre in scrittura le atmosfere, rendendole un elemento centrale: è particolarmente evidente nelle opere che affrontano il tema delle relazioni interpersonali e sentimentali, come il best seller La cartella del professore, del 2001, centrato sulla liaison tra una donna di trentasette anni e un suo professore di liceo, di trent’anni più anziano, incontrato dopo diversi anni; ma torna anche in opere successive come I dieci amori di Nishino, del 2003, o Le donne del signor Nakano, del 2005.

L’ultimo titolo di Kawakami Hiromi, La voce dell’acqua (traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi, pp. 176, € 17,50) è affidato alla voce narrante di Miyako, una donna di cinquantacinque anni, che ripercorre diversi momenti della propria vita, scandita da due eventi cardine. Il primo, la morte della madre, avvenuta nel 1986, ha portato lei, il fratello Ryō e il padre ad abbandonare la casa di famiglia, e a diradare i contatti. Il secondo è la decisione della protagonista di tornare a vivere in quella stessa casa assieme al fratello, nella primavera del 1996. Osservati da un presente datato 2013, episodi del passato più o meno prossimo si giustappongono, attraversati dal senso di perdita e dalla continua tensione affettiva ed erotica di Miyako verso Ryō. Alla storia personale si interseca quella del Giappone postbellico e, sullo sfondo si intravedono alcuni eventi chiave dell’epoca: i moti studenteschi del Sessantotto, la morte dell’imperatore Shōwa nel 1989, l’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995 e il Grande terremoto del Giappone orientale del 2011.

Il romanzo è anche il pretesto per considerazioni sulla famiglia: quando i due ragazzi hanno vent’anni, viene fatta loro una rivelazione che mette in dubbio il fondamento stesso del nucleo familiare cui appartengono, e gli elementi costitutivi di questa istituzione sembrano perdere consistenza, rivelandone la natura di costrutto sociale. «Conta chi ti ha cresciuto, mica il legame di sangue» risponde “Mami” a una Miyako dubbiosa, che quasi trent’anni dopo si chiederà se davvero lei e il fratello, che vivono assieme nella casa in cui sono cresciuti, costituiscano veramente una famiglia. Anche qui, come già nel caso della madre-serpente, Kawakami non offre risposte e sta al lettore decidere se conformarsi all’idea socialmente accettata o se aprirsi a una idea di famiglia meno rigida.