«La vita e l’arte di Kavafis sono consegnate al monumentum esiguo ed esauriente di 154 poesie, alle quali sarebbe arbitrario aggiungere le poesie “inedite” o segrete e le poesie “rifiutate”, benché fra le prime si trovino gemme autentiche». Così si legge nelle pagine con cui Filippo Maria Pontani accompagnava la sua storica traduzione delle Poesie di Costantino Kavafis, uscite per Mondadori nel 1961 (e il 1963 sarà poi l’anno dell’edizione critica delle Poesie uscita ad Atene per le cure di Giorgos Savvidis, che solo trent’anni dopo darà fuori anche un’edizione delle Poesie segrete). La sistemazione del corpus complessivo – nonché la datazione di diversi testi – ha sempre costituito una croce per gli studiosi dell’«ultimo alessandrino». Oggi i lettori italiani possono tuttavia contare, finalmente, su un poderoso volume che ci restituisce invece l’intera opera poetica kavafiana, Tutte le poesie a cura di Paola Maria Minucci (Donzelli, pp. 714, € 35,00) – e il saggio finale della curatrice riparte infatti proprio dal cristallizzato «luogo comune» delle 154 poesie canoniche, insomma dalla ridefinizione dei vari strati e momenti della scrittura kavafiana (è un peccato, sia detto di passata, che un’edizione accurata, che certo diventerà un punto di riferimento, sia priva di un indice dei titoli, che ne avrebbe facilitato la consultazione e lo studio).

Ceronetti, Risi, Dalmàti
Leggere questo Kavafis vuol dire intanto confrontarsi con una serie di prove e esperimenti traduttorî davvero non banali (basterà ricordare almeno Guido Ceronetti e il duo formato da Nelo Risi e Margherita Dalmàti, senza contare che con una lirica come Aspettando i barbari si era misurato nientemeno che Eugenio Montale), e assistere alla completa assunzione del greco kavafiano – con i suoi bellissimi saliscendi fra lingua popolare e lingua colta – dentro un italiano elegante e contemporaneo, di efficace naturalezza. Il che ha allora anche il risultato, in certo senso, di «classicizzare» (di rendere ormai giustamente oggetto di studio, tributandogli così il miglior omaggio possibile?) la magnifica versione d’autore – densa di echi letterari – dello stesso Pontani. Prendiamo un solo campione, la strepitosa Desideri, che è una specie di manifesto di come la ricerca del piacere possa rovesciarsi più volte, in Kavafis, nel ricordo di ciò che non si è mai compiuto: «Come corpi belli di morti, mai raggiunti dalla vecchiaia / e chiusi, piangendo, in splendidi mausolei, / con rose sul capo e gelsomini ai piedi – /così sono i desideri passati / e mai realizzati, senza una sola notte, / né un mattino luminoso, di piacere» (nella resa di Pontani i desideri diventavano già in titolo, un po’ alla Saba, brame, e una patina preziosa si depositava poi su diverse soluzioni del traduttore, come per la vecchiezza e per le voluttuose notti dell’io). Allo stesso modo, altrove, la Voluttà di un altro grande epigramma kavafiano – termine che resta poi a segnare anche la già ricordata scelta di Risi e Dalmàti – è chiamata qui senz’altro Piacere (non senza che poi, dallo stesso Pontani, si possa naturalmente anche imparare, ma come linearizzandone il tratto: «Di gioia mi profuma la vita la memoria / dell’ore (…) / E di gioia profuma la vita mia…»; e ora Minucci: «Profuma di gioia la mia vita il ricordo delle ore / (…) Profuma di gioia la vita per me», in un attacco memorabile, replicato al secondo distico).
Leggere più estesamente Kavafis, tornare ai suoi luoghi primi – per esempio a certe traduzioni, da Dante a Shakespeare a Tennyson – così come alle poesie lasciate nel cassetto, potrà forse essere anche l’occasione per rimettere alla prova alcuni nodi problematici della sua esperienza poetica. Per esempio la convivenza, in lui, di una dimensione erotica e di una dimensione storica, senza che né l’una né l’altra possano esaurire compiutamente la sua figura, ma siano piuttosto destinate a convivere ad armi pari. Così, se per le liriche in cui a dominare è l’eros omosessuale il lettore italiano è abituato ad avvicinare Kavafis a Sandro Penna – specialmente dalla recensione di Pasolini alle Poesie nascoste, uscita nel 1974 – per questa operazione di reinvenzione storica (è lo stesso Kavafis a rivendicare per sé l’etichetta di «poeta storico») fa pensare ai pur diversi Poemi conviviali del non molto più anziano Pascoli. E si potrà verificare come, in fondo, esistano almeno due diverse vene dentro lo stesso poeta: un Kavafis più ombroso, dove la felicità perfetta è minacciata dal rischio della sua fine (così in I passi); e un’altra, diversa, nella quale la proiezione del desiderio nel ricordo diventa una particolarissima forma di soddisfazione gioiosa, di avvenuto possesso: ne Lo specchio nell’ingresso, per esempio, un vecchio specchio può farsi sostituto dell’io lirico, e godere della «bellezza perfetta» di un ragazzo riflessa nel vetro (e la rappresentazione degli oggetti, dei dettagli e degli interni è fra le maggiori fonti di fascino di questa lirica).
Quanto ancora all’eros, certamente la declinazione omoerotica non va rimossa, al momento di riattraversare questi versi. Ma non andrà nemmeno dimenticato che Perdita, Marginalità e Esilio – cito alcuni elementi-simbolo, che i lettori hanno più volte rintracciato come contrassegni kavafiani essenziali – sono, più in generale, fattori fondamentali per la parabola dell’intera lirica moderna. E altrettanto lo è il grande intreccio, di estrazione già romantica, tra effimero ed eterno. Ricordarsene non rischierebbe certo di limitare la grandezza di Kavafis – della straordinaria cattedrale che è la sua poesia – ma aiuterebbe magari a renderla un po’ meno isolata. La lezione di Baudelaire, per esempio, si insinua molto esplicitamente già in una poesia del 1891 (Corrispondenza secondo Baudelaire, riscrittura entro la quale è incastonata appunto una versione di Correspondances).

Impronta baudelairiana
Non stupisce, allora, che nel 1903 Kavafis scriva una lirica di impronta spiccatamente baudelairiana, Fiori artificiali – ma insieme molto sua – nella quale emerge il tema dell’arte superiore alla natura: «Non voglio narcisi veri – non mi piacciono / i gigli e neppure le rose naturali. / (…) Datemi fiori artificiali – vanto dello smalto e del metallo – / che non appassiscono né marciscono, con forme che non invecchiano. / (…) Se non profumano, noi verseremo aromi, / per loro bruceremo unguenti sensuali». Anche altrove Kavafis sa sfruttare fertilmente alcuni emblemi della modernità lirica, eppure sempre con una sua specifica torsione. Si può pensare a come ritorni un elemento lirico ormai topico come la finestra – icona di separazione e esclusione – ma in tutt’altra, originalissima chiave (Finestre), entro la quale una sensibilissima percezione di sé, un troppo di consapevolezza, sembra mettere per una volta la sordina al liberarsi del desiderio. Oppure si pensi a come, nell’ambiente cittadino, trovi spazio il topos dell’incontro fra sconosciuti, un po’ come nella Passante baudelairiana, ma traslato all’aria levantina delle vie e dei caffè di Alessandria: «Non li ho trovati più – così presto perduti… / gli occhi poetici, il pallido/volto … nella strada, quando annotta … / Non li ho trovati più – conquistati così, per caso, / e presto abbandonati» (Giorni del 1903). Ma nella Vetrina del tabaccaio, un testo del 1917, lo stesso incontro fra sconosciuti – lo stesso gioco di sguardi che «s’incrociarono per caso» – può romanzescamente concludersi, invece, con una concreta scena amorosa, una «carrozza chiusa… / un sensuale sfiorarsi dei corpi; / unite le mani e le labbra».
Kavafis, diceva Seferis, è «una fine, non un inizio». Eppure i vuoti d’aria che non di rado si percepiscono nei suoi versi – lo scontro continuo fra attimo realmente vissuto e «vita che hai sciupato» – sembra farne qualcos’altro, proiettare la sua ombra ben oltre la sua morte, fino a noi.