Dopo aver vinto il torneo mortale degli hunger games e sfidato il potere della capitale di Panem, nell’omonimo primo film dalla trilogia di film da Susan Collins, nel suo sequel (La ragazza di fuoco) avevamo ritrovato Katniss Everdeen in una brutta subdivision per ricchi nel natale, poverissimo, dodicesimo distretto.
Dopo che Katniss, in La ragazza di fuoco, ha fatto saltare in aria un’edizione speciale dei giochi appositamente disegnata dal presidente Snow per levarla di mezzo una volta per tutte, all’inizio di Il canto della rivolgta parte 1, la ritroviamo sottoterra.È lì, in una specie di tristissimo alveare di cemento, che gli abitanti del famigerato distretto 13 (bello il richiamo a Carpenter, probabilmente casuale) stanno preparando la rivoluzione, sotto il ferreo controllo del presidente Alma Coin (Julianne Moore), quasi spietata e ambiziosa come Snow, anche se di segno politico opposto. Secondo la mitologia di Collins, questo distretto, adibito all’industria nucleare, si pensava distrutto e privo di abitanti.

In un contesto da resistenza in esilio che ricorda un po’ il lucasiano L’impero colpisce ancora e Matrix Reloaded, Katniss reincontra qui anche lo stoico, e sempre innamorato, Gale (Liam Hemsworth), l’ex architetto dei giochi di morte Plutarch (Philip Seymour Hoffman, genialmente sottotono), il tecnico Beetee (Jeffrey Wright) e un altro sopravvissuto dei giochi, Finnick Odair (Sam Claifin). Tutti decisi a mettere fine alla dittatura della Capitale. Alla rivoluzione manca solo una cosa: un testimonial capace di trascinare le masse. Il ruolo – sperano tutti- che giocherà Katniss, soprannominata il mockinjay, in omaggio al magico uccellino di Panem. Ma lei non è così convinta. Anche perché il suo amore un po’ mediatico un po’ vero, Peeta Mullark (Josh Hutcherson), è rimasto indietro, nelle grinfie di Snow, e trasmette struggenti video pacifisti su tutti gli schermi di Panem.

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Dalla lussuosa, coloratissima, stravaganza imperiale della capitale, che aveva fatto da sfondo ai due primi film, nel terzo si passa a un mondo ugualitario, claustrofobico e monocolore, dove persino la sfavillante cerimoniera Effie Trinket (Elizabeth Banks) è costretta a indossare l’orribile tuta pseudo militare grigioverde che vestono tutti i seguaci di Alma Coin.
Niente make up, niente alcol, niente musica, niente proprietà privata e persino niente gatti, in questo bunker sotterraneo di cemento, in cui tutte le libertà personali passano in secondo piano rispetto alla causa rivoluzionaria. Nella visione distopico/libertaria di Collins, dopo il dittico antitirannia capitalista, il terzo libro era (anche) un’ ammonizione contro il pericolo di esagerare troppo dall’altra parte. Francis Lawrence (il regista austriaco che aveva già diretto La ragazza di fuoco) e gli sceneggiatori del film attutiscono la simmetria un po’ prevedibile che, insieme ai chiari rimandi tra l’utopia rivoluzionaria di Coin e la Mosca della guerra fredda o Pyongyang, appesantiva il terzo libro. Può darsi che quel dato più didattico riemerga nell’ultimo film delle serie, atteso per l’anno prossimo, ma in questo Lawrence ha fatto scelte diverse, interessanti, per sopperire alla forte diminuzione dell’elemento fantasy nella storia e dei fasti visivi che lo accompagnavano. Dalla guerriglia (tra giovanissimi) come olimpiade a cui erano ancorati i primi due film/libri, Il canto della rivolta 1 diventa infatti un film di guerra vera e proprio.

Nonostante Catching Fire sia stato il maggiore campione d’incassi del 2013 (circa 425 milioni di dollari) questo terzo capitolo della saga rimane fedele all’idea di un franchise a budget contenuto (per il genere, s’intende) che la Lionsgate aveva coniato con i Twilight. Lawrence opta quindi per un look realistico (sempre relativamente parlando). E parecchie delle immagini del nuovo capitoloricordano meno altri precedenti di fantasy distopica (come i Matrix) che i telegiornali di questi giorni. Il che conferisce al film un’immediatezza, almeno viscerale, sconcertante.

Nella sci-fi per il rating PG 13 difficilmente una decapitazione passerebbe al vaglio della MPA. Ma, in Mockinjay 1, i «ribelli» in ginocchio, incappucciati di nero e giustiziati in pubblico dai soldati di Snow sono un rimando inevitabile ai video delle esecuzioni accessibili su internet. Il loro controcampo – una folla di afroamericani sull’orlo della rivolta- è Ferguson l’altra notte. Quando Katniss chiede di visitare ciò che è rimasto del distretto 12, dopo che Snow lo ha raso al suo per vendicarsi di lei, il suo pellegrinaggio tra quella macerie da cui emergono resti umani fa venire in mente Gaza dopo i carrarmati. La strategia di video pubblicitari pro rivoluzione per infiltrare le trasmissioni propagandistiche della capitale è You Tube. E, quando Coin (a cui Julianne Moore dà una dizione “autoritaria”, derivata dalla cadenza della voce di Hillary Clinton) invia un corpo speciale per liberare Peta il transfer è puro Abbottabad, incluse le immagini del(la) presidente che segue (come Obama e Hillary) il tutto a bocca aperta. Guerriera, pasionaria, ribelle per DNA ed essenzialmente un lupo solitario, Katniss, personaggio della fantasia, naviga/guarda questo mondo orribile (che è poi il nostro) con riluttante, dolorosa, malinconia.