Per meno di 30 euro, oggi potete comprare una Barbie con un vistoso vestito rosa anni 50, occhiali vintage da professoressa vecchio stile, collana di perle, capelli cotonati, immancabili tacchi. E con un visibilissimo badge della Nasa appeso al collo. La ragione è che si tratta di Katherine Johnson, una matematica ultracentenaria afroamericana ancora viva che a suo modo ha fatto la storia dell’esplorazione spaziale.
Nasce nel 1918 con il cognome Coleman in uno sperduto paesino della Virginia che allora aveva solo qualche centinaio di abitanti. Il suo destino sembrava essere segnato: una bimba nera del sud non era certo l’incarnazione del sogno americano. Non c’era neppure una scuola per neri che andasse più in là delle elementari. Ma Katherine era una ragazza che contava. Contava tutto. I piatti che lavava. I passi che la separavano dalla chiesa presbiteriana. Le stelle che vedeva. Ed era brillante a scuola, tanto che era passata dalla seconda direttamente alla quinta. E i suoi genitori decisero di portare tutta la famiglia (era la più piccola di 4 fratelli) a più di 150 chilometri di distanza, a Institute, accanto allo West Virginia State College (una università storicamente nera), perché lì c’era un liceo in cui Katherine entrò a soli 10 anni. Da lì passò all’università (grazie a una borsa ottenuta per i suoi brillanti risultati), dove si laureò nel 1937 in matematica e francese con lode, dopo aver costretto l’università a istituire nuovi corsi di matematica solo per lei. Nonostante gli sforzi del suo mentore, William Schieffelin Claytor, uno dei tre unici matematici neri con dottorato al tempo, perché intraprendesse l’impervio cammino della ricerca, virtualmente impossibile per una donna nera, Johnson iniziò a insegnare in scuola per neri. Lo fece per più di 10 anni, convinta del potere dell’educazione. Fu anche l’unica donna (e una dei 3 unici afroamericani) ammessi al dottorato nel 1939 nell’università per bianchi West Virginia University quando l’università decise di infrangere il segregazionismo educativo per imperativo legale (una sentenza della Corte Suprema). Ma non continuò, e tornò a insegnare, per poter formare una famiglia col suo primo marito, James Goble, da cui ebbe tre figlie (dopo la sua morte per un tumore al cervello nel 1956, si sposò nel 1959 con James Johnson, veterano della guerra di Corea).

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LA NACA E LA NASA
Katherine e James continuarono a insegnare. Fino a che, per caso, un parente di James nel 1952, in piena corsa allo spazio, le fece sapere che l’antecessora della Nasa, la Naca, stava cercando matematiche. Anche nere. Era l’occasione d’oro per Katherine. Venne assunta nel 1953. Da allora, contribuì a cambiare la storia dell’esplorazione spaziale. Il suo lavoro consisteva nel fare i conti. Era una «computer» umana, una calcolatrice, nell’epoca prima dei computer. All’inizio, il compito di Katherine e delle sue colleghe era di prendere dei numeri dalle scatole nere degli aerei e fare un mucchio di calcoli. Ma a un certo punto, venne assegnata ad aiutare un team di ricerca (di soli uomini, bianchi naturalmente). Ma nonostante la discriminazione che comunque doveva vivere, i bagni separati e i piccoli e grandi soprusi, gli artigli del razzismo di stato erano meno affilati dentro la Naca (Nasa dal 1958, dopo il lancio sovietico del primo Sputnik) perché era una istituzione federale, e Katherine, assertiva e diretta, riuscì a essere ammessa ai meeting di soli uomini e a ottenere, grazie alle sue doti soprattutto in geometria, una posizione e un salario migliore. E persino a poter firmare col suo nome i rapporti: fu la prima donna a farlo alla Nasa.

I CALCOLI
Fu lei che calcolò l’orbita del primo americano nello spazio, Alan Shepard, nel 1961, poco dopo il volo del russo Gagarin. Fu lei a calcolare la finestra di lancio per la seconda missione Mercury, quello stesso anno. Quando fu John Glenn a volare, nel 1962, fu lui a pretendere che Katherine rifacesse tutti i calcoli ottenuti dal primo computer IBM 7090. «Fate ricontrollare alla ragazza i numeri. Se lei dice che sono esatti, sono pronto a partire». Un uomo bianco del nord che affidava le sue sorti a una donna nera del sud: una potentissima inconsapevole metafora. Fu sempre lei che aiutò a calcolare l’orbita dell’Apollo 11 che avrebbe fatto la storia in quel 1969. E fu lei che preparò manuali con orbite lunari in caso di problemi: uno di questi manuali fu essenziale a riportare a casa gli astronauti dell’Apollo 13.
Rimase alla Nasa fino alla pensione, nel 1986. Negli anni sessanta, una delle principali riviste dedicate alla comunità afroamericana le aveva fatto un ritratto, dedicato alla «matematica che aveva reso possibile il volo di Glenn», con tanto di foto (con immancabili perle), rendendola già una role model per la comunità. Ma ci volle però la medaglia presidenziale di Barack Obama, nel 2015, e soprattutto il bellissimo film Hidden Figures (in italiano: Il diritto di contare), l’anno successivo, uno dei pochi con protagoniste tre brillanti donne nere, per restituirle la meritatissima fama.
Oggi i bambini e le bambine di tutto il mondo possono leggere la sua storia nel libro Storie della buonanotte per bambine ribelli (Mondadori) e giocare con una bambola con le fattezze di questo straordinario personaggio. «Mi piaceva il lavoro. Mi piacevano le stelle e le storie che stavamo raccontando. Era una gioia poter contribuire alla letteratura che stavamo costruendo. Ma non mi sarei potuta immaginare che saremmo andati così lontano».