Quando alla fine del processso che la vede vittoriosa contro l’amministrazione Nixon e i suoi assalti alla libertà di stampa, Katharine Graham/Meryl Streep scende le scale viene ignorata dagli altri media, troppo concentrati sul direttore del «New York Times». Gli sguardi delle donne, molte ragazze giovani come quelle che nell’America degli anni Settanta manifestavano contro la guerra in Vietnam, sono però tutti per lei.

Unica in un mondo di uomini, Graham rappresenta non solo una sfida al costume che vuole le donne a casa, ma soprattutto la conquista di una consapevolezza personale che mette in discussione i ruoli imposti dal gender. Sarebbe semplicistico vederci gli «effetti» dei movimenti #MeToo o Time’sup di cui Streep, magnifica interprete, è tra i promotori principali anche perché è stato girato prima. Di certo nel film circola un’aria dei tempi che appare come una(acutissima) intuizione. E qualcosa di più perché la parabola del personaggio si oppone radicalmente alla strumentalizzazione dei movimenti che vuole farne coincidere l’immagine con una sorta di «nuova caccia alla streghe» sul rogo della molestia, persino se presunta, come hanno dimostrato le prese di posizione (molto furbette) di neocandidati all’Oscar, tipo il giovane attore Timothée Chalamet o Greta Gerwig contro Woody Allen (per non dire della possibilità che amazon non distribuisca il nuovo film del regista, A Rainy day in New York).

L’effetto è quello contrario: spostare l’attenzione sulla censura, e sulle prescrizioni del «politicamente corretto» da quanto invece il movimento sta (stava?) cercando di mettere in discussione: un sistema di potere. E niente è più efficace per distruggerlo.

Katharine Graham, il personaggio spielberghiano, non coincide appieno con la «vera» editrice del «Washington Post» ma poco importa. Il padre, proprietario del giornale le aveva preferito nella successione il marito, Phil Graham, decisione che Katharine considerava logica – come scrive nell’autobiografia, Personal History con cui nel ’97 ha vinto il Pulitzer (Graham è morta nel 2001). Il marito però si suicida e lei si trova all’improvviso alla testa del giornale, e dell’impresa che deve essere quotata a Wall Street, in un consiglio d’amministrazione di uomini come quasi l’intera redazione, che nell’adrenalina della caccia alla notizia, dell’inchiostro e delle prime pagine poco tollera partner femminili.

Spielberg ce la mostra impacciata, quasi a disagio nei suoi tailleur un po’ rigidi mentre attraversa la redazione o discute col suo direttore Bradlee (Hanks). Sembra più «in parte» insieme agli amici, che spesso coincidono con coloro che dovrebbero essere i suoi avversari, il direttore del «New York Times» o alcuni potenti politici come McNamara, a cui la lega un’antica amicizia; relazioni che la decisione di pubblicare i Pentagon Papers metterà seriamente in crisi.
In qualche modo è come se la Katharine Graham del film – esprima la storia delle donne che nel dopoguerra americano, che dopo avere occupato ruoli di responsabilità, al rientro dal fronte degli uomini sono costrette a indossare di nuovo l’«abito» di madre, moglie, al centro della mondanità – nei casi upper class – e pian piano iniziano a (ri)prendere altri spazi in un’ipotesi di parità.

Graham – alla cui direzione si deve l’inchiesta che portò al Watergate – non si sottrae alle sue responsabilità mostrandosi, anche se in gioco c’è molto per lei, e non solo professionalmente – come fa notare a Bradlee la moglie – pronta a rischiare. Una conquista, la sua, senza eroismi sopra le righe, fatta di fatiche e di contraddizioni. Ciò che è un movimento, non i «suoi» presunti scandali.