Venti anni fa esatti, il 28 marzo del 1997, si consumava un misfatto a mare che avrebbe tristemente anticipato le stragi che hanno riempito di vittime negli ultimi anni le fosse del Mediterraneo. Così, ricordare la Kater I Rades, tornare a sentire come abbiamo fatto i sopravvissuti di quell’eccidio, non è purtroppo esercizio di memoria. È pura attualità. L’origine materiale e violenta della stagione dei respingimenti. Una chiara dimostrazione di cosa può provocare un blocco navale militare più volte evocato, anche in sede europea, contro i disperati in fuga attraverso le coste della Libia. E di come l’uso dei mezzi militari produca stragi.

Anche allora dilagava un clima di isteria contro i profughi. In quel caso gli albanesi che arrivavano con le carrette a mare, con la Lega Nord – ben rappresentata da Irene Pivetti allora a capo del parlamento – che cominciava a chiedere espressamente di sparare sulle navi dei profughi e di ributtarli a mare.

Così, il 28 marzo del 1997, una nave militare italiana speronò in acque internazionali la carretta del mare Kater I Rades, provocandone l’affondamento con la morte di oltre cento persone – 105 per la precisione – molte delle quali donne e bambini. Fuggivano tutti dalla guerra civile che era scoppiata in Albania contro il fallimento delle Piramidi finanziarie e il presidente Sali Berisha che le aveva promosse e che, per rispondere alla rivolta popolare, aveva dichiarato lo stato d’emergenza.

La Sibilla era tra le navi italiane impegnate in un «blocco» deciso dal governo Prodi in accordo con quello albanese e con il presidente Sali Berisha senza l’assenso del parlamento e senza che ancora fossero conosciute le regole d’ingaggio delle forze militari impegnate nell’operazione di «respingimento e dissuasione» dei profughi albanesi in fuga. La versione dei fatti fornita dalla Marina militare apparve subito lacunosa.

Risultò che la Sibilla si era avvicinata al cargo albanese che era in evidenti condizioni precarie di navigazione, nonostante il mare mosso, per «consigliare» con un megafono all’imbarcazione di tornarsene in Albania.

Nelle condizioni del mare a forza cinque, una nave militare delle dimensioni e della stazza della Sibilla era tenuta a rispettare una distanza di sicurezza di almeno cento metri. Cosa che naturalmente non avvenne.

Al dilà dei fatti accaduti «a mare» resta ancora adesso tutta quanta la responsabilità, oggettiva e politica, del governo di allora per il «pattugliamento navale» e la finalità per la quale era stato organizzato. Fu subito un rimpallo di responsabilità.

Colpa di Andreatta alla Difesa? Colpa di Lamberto Dini ministro degli esteri? No, colpa di Giorgio Napolitano allora ministro degli Interni che, con il decreto d’emergenza e le espulsioni, aveva messo in moto il meccanismo del blocco navale.

Una cosa sola fu certa: quelle misure vennero prese da tutto il governo. Il primo governo di centrosinistra, con i Ds (allora Pds) in posizione dominante, si era messo d’accordo con un personaggio impresentabile come il premier albanese Sali Berisha, per un blocco navale e per l’invio di una forza militare che intanto lo sostenesse.

Un «muro» di navi da guerra, dinanzi alle coste albanesi per interdire la navigazione ai profughi diretti verso l’Italia, deciso senza mandato parlamentare, con l’opposizione di forze della maggioranza di governo come Rifondazione comunista (tutta, ancora non c’era stata la rottura) e i Verdi. E con l’aperta ostilità dell’Alto commissario Onu per i rifugiati , Fazlum Karim.

Ecco l’humus da cui prese le mosse la Bossi-Fini. E pensare che il governo italiano, replicando al rappresentante dell’Onu, aveva escluso e negato l’esistenza del blocco navale.