Venti anni fa si consumava la tragedia della nave albanese Kater I Rades. Ad uno dei sopravvissuti, Krenar Xhavara, che incontrammo già nel 1997 e che fu portavoce delle famiglie dei profughi raccolti poi nell’ex caserma Caraffa di Brindisi, abbiamo rivolto alcune domande. Krenar ha perso nel naufragio la moglie e la figlia di sei mesi oltre che tutta la famiglia del fratello; lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Valona in Albania. Oggi a Brindisi, – alle 16.30 sul Lungomare – si svolgerà una iniziativa antirazzista per ricordare le vittime della Kater I Rades, promossa dal Comitato «Migranti e Mediterraneo».

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Le operazioni di recupero della Kater i Rades

Che cosa ti ricordi ancora di quei momenti?

Per me è come se fosse accaduto ieri. Ho sempre davanti agli occhi quei momenti. Mi ricordo il nostro terrore, le urla, il rumore sordo dello scontro con la nave Sibilla che avvenne in acque internazionali, violando tutte le leggi del mare senza alcun rispetto per le vite civili. Eppure quelle persone fuggivano dalla guerra civile in Albania che era scoppiata perché l’allora presidente Berisha voleva reprimere la rivolta popolare contro le Piramidi finanziarie che lui e il suo governo avevano favorito. C’erano già molti morti nelle città albanesi, a nord come a sud. Io avevo già trovato riparo in Italia ed ero tornato per prendere la mia famiglia e quella di mio fratello. Si sparava dappertutto, le caserme erano assaltate, tutti erano armati, così abbiamo pensato di spostare le famiglie e portarle in Italia. Non avremmo mai pensato di fare quella fine quando siamo partiti quella sera che nessuno di noi dimenticherà mai. Soprattutto chi come me ha perso la moglie e la figlia di sei mesi, o come mio fratello che ha perso tre figli e la moglie. Il fatto è che siamo stati dimenticati, messi da parte. Quella sera, dopo un’ora che eravamo partiti da Valona, appena dopo avere superato l’isola albanese di Sezano, siamo stati accostati ancora in acque albanesi dalla nave militare italiana Zefiro, che non fece però manovre pericolose. Ci avvertivano solo con il megafono di tornare indietro. Noi eravamo troppo disperati e abbiamo scelto di andare avanti. Allora abbiamo visto, anche se era inverno e buio pesto, peggio che di notte, arrivare dalla direzione di Brindisi un’altra nave militare. Era buio, ma vedevamo bene tutto, perfino un militare italiano che puntava la mitragliatrice contro dalla nave. Dopo un’ora e mezza di inseguimento è arrivato un elicottero, credo della Zefiro e dieci minuti dopo l’elicottero, è arrivata la nave Sibilla. Stava attaccata dietro di noi e ha colpito la nostra nave. È stato terribile.

Voi poi siete stati raccolti, portati in salvo. Quanti sono stati i sopravvissuti?

I sopravvissuti all’affondamento sono stati 34, eravamo partiti in 139. Dunque le vittime sono state 105, e da quello che io so molti corpi non sono mai stati trovati.

Avete chiesto giustizia. Dall’Albania, perché Berisha, il repressore della rivolta popolare, fosse incriminato come responsabile delle fughe dei civili. Ma chiedevate giustizia anche dall’Italia. Che cosa è successo?

Eravamo in fuga perché terrorizzati da quello che succedeva e dal disastro delle Piramidi che Berisha aveva voluto. Ma, dopo una vuiolenta crisi interna, Berisha tornò a vincere le elezioni nel 2005 e a governare l’Albania. Qui i diritti delle persone erano stati cancellati, da Berisha ma anche dai governi precedenti compreso quello di Fatos Nano dal quale ci aspettavamo cambiamenti. Comunque nessun governo albanese – anche il nuovo premier Edi Rama parla ma alla fine non fa nulla – si è battuto fino in fondo per la verità sulla Kater I Rades. Non si voleva che la Marina militare italiana fosse incriminata per quello che è successo. Il governo albanese poi è stato praticamente assente dalla commissione rogatoria italo-albanese incaricata dell’inchiesta. A loro interessava e interessa solo e soltanto il potere e il commercio delle persone, comprano merci e scambiano persone…

Ma avete avuto giustizia dall’Italia?

C’è stata la sentenza nel giugno del 2005, con una prima condanna a due anni e mezzo per entrambi i comandanti delle navi, ma nessun generale dello stato maggiore o ammiraglio della Marina è stato incriminato. Ora mi pare che tutto sia archiviato. Dopo c’è stato un ricorso al tribunale di Lecce già nel gennaio-febbario 2006. Con una condanna definitiva a tre anni per Fabrizio Laudadio comandante della Sibilla, e due anni a Namik Xhaferi comandante della Kater I Rades. L’Italia ha deciso un risarcimento alle famiglie delle vittime, in due fasi nel 2000-2001 e poi nel 2003, in tutto per dieci miliardi di lire, 5 milioni di euro attuali. Responsabile di questi risarcimento era la Marina militare e il ministero della difesa. Alla fine tra spese processuali, cose poco chiare e «raggiri», sono stati dati circa 10mila euro ad ogni sopravvissuto e 33mila euro per ogni vittima. Una vita umana dunque vale 33mila euro.

La strage oggi sarà ricordata?

C’è stata, ma solo domenica 26, una cerimonia ufficiale a Valona con l’ambasciatore italiano e il premier Rama. Oggi io sarò a Otranto, ad una iniziativa per inaugurare la trasformazione in monumento della motovedetta, a cura dello scultore greco Costas Varotsos. Non posso non tornare dove la mia vita è cambiata, avevo 27 anni, ora è come fossi già vecchio. In Italia avevo chiesto asilo politico, fuggivo dalla guerra civile, ma nessuno me l’ha mai concesso. L’Italia e l’Europa vantano i diritti umani e la libertà, ma i migranti vengono sempre respinti. Non bastano i monumenti. Devono chiedere scusa alle vittime del Canale di Otranto e del Mediterraneo rimaste sconosciute. Almeno noi abbiamo avuto una «fortuna»: si è subito saputo e visto.