Una produzione da milioni di sterline, una crew composta da oltre cento persone. Kate Bush per il ritorno dal vivo a trentacinque anni dalla sua ultima apparizione su un palcoscenico, vuole dimostrare di non aver perso un oncia del fascino magnetico con il quale ha saputo catturare milioni di fan in tutto il mondo, stregati da quella inquieta ragazzina che appena sedicenne volava sulle note altissime di Wuthering Heights.

Un impegno a cui si sta applicando, ma non c’erano dubbi, meticolosamente. Le prove per la rentrée all’Hammersmith Apollo theatre – ventidue date a partire dal 26 agosto, 80 mila posti complessivi ’bruciati’ in quindici minuti dall’apertura delle prenotazioni online – secondo alcune indiscrezioni apparse sulla stampa britannica – l’hanno vista immersa in una vasca di galleggiamento installata presso i Pinewood Studios e dotata di macchine per la produzione artificiale di onde.

Senza controfigure, assistita solo da sei istruttori di immersione subacquea, ha lavorato tre giorni per realizzare un filmato – verrà utilizzato durante lo show – che simula l’effetto del suo corpo galleggiante nell’oceano e disperso in mare…

La scelta di ripartire all’Hammesmith non è casuale, qui nel 1979 – allora si chiamava Hammersmith Odeon – Kate Bush aveva concluso con 15 date ’sold out’ il ’tour of life’. Trionfale happy end di tre anni frenetici durante i quali aveva prodotto decine di canzoni dimostrando al mondo come si potessero legare mondi apparentemente lontani: la danza, la musica pop, il teatro e il cinema.

Una performance stupefacente, con mille cambi di costume; aggressiva lottatrice per James and the Golden Gun, attonita eroina in Hammer Horror.
Compositrice, autrice interprete, produttrice, arrangiatrice e polistrumentista, ballerina, coreografa e regista: Kate Bush nel corso della sua carriera si è cimentata in ogni genere.

Capace di realizzare pop hit di facile ascolto ma di qualità – Wuthering Heights, Babooshka, The Man with a Golden Gun, e di osare come pochi altre pop star sono state capaci di fare con produzione impegnative e ostiche quali The Dreaming (1980) o in tempi più recenti (2005) il doppio Aerial.

D’altronde la vorace Kate se lo può permettere anche in virtù di una voce da quattro ottave di estensione che ha ispirato negli ottanta Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins e nei novanta Tori Amos e Bjork. Elasticità vocale frutto di un’applicazione certosina e di un’idea – espressa nelle (rare) interviste concesse dall’artista londinese – di musica intesa come «fusione totale con l’arte»: «Ho sempre provato piacere nel raggiungere note non facilmente raggiungibili – una settimana dopo tocco quella nota e cerco di raggiungere quella ancora più alta . Ho sempre sentito dentro di me che si possono acuire i propri sensi se ci si prova. La voce è come uno strumento. La ragione per cui ho cantato Wuthering Heights con note così alte è perché ho sentito che così doveva essere. Il libro ha un’atmosfera misteriosa e io volevo che il brano la riflettesse».

Fuori dalla pazza folla per così tanto tempo, alle basi del ritiro tanti motivi; la complessità dei live set e il suo noto perfezionismo, la maternità e la volontà di dedicarsi alla sola composizione. In realtà Kate Bush non ha mai escluso un suo ritorno on stage, anzi all’indomani della pubblicazione del suo ultimo lavoro da studio 50 Words for Snow (2011), dove confessava la difficoltà e lo stress di esibirsi dal vivo, non accantonava l’ipotesi di nuovi concerti, idea messa in cantiere a tre anni di distanza.

Il canto non è la sola passione di Kate, la danza e il mimo – basta guardare ai suoi video sempre complessi e concettuali – sono alla base di molti suoi progetti. L’incontro con Lindsay Kemp è stato fondamentale: «Mi recai – rivela nella biografia pubblicata negli ’80 – a vedere un suo spettacolo e fu allora che all’improvviso realizzai che era ciò che stavo cercando, quel tipo di movimento unito alla musica». Una curiosità divorante e precoce; lo testimoniano anche i demo di The Man with the child in his eyes e The Saxophone song, brani finiti poi nel primo album The Kick Inside, realizzati nel 1971 quando l’artista aveva appena compiuto quattordici anni.

Ricerca e passione, ogni suo disco – anche i meno riusciti – sono operazioni oneste, pensati e rimodellati (Director’s cut, nel 2011, stravolgeva con successo alcuni pezzi originariamente compresi in The Red Shoes del 1993). Il debutto The Kick inside (1977) non potrebbe essere più convincente, così ricco di elementi – melodie pop e suoni etnici, aperture elettroniche e un gusto da folksinger, percorso da figure fiabesche, fantasmi tenuti insieme dalla voce sicura e dai timbri sgargianti ma che sanno improvvisamente diventare cupi, della giovanissima Kate.

Pagato lo scotto di un secondo album decisamente meno centrato licenziato lo stesso anno Lion Heart, il suo percorso artistico eclettico riprende con Never For Ever (1980). È il disco di Baboohka – certo, ma contiene una ballata antimilitarista come Army Dreamers e Breathing che a dispetto di una melodia all’impianto classico, parla delle conseguenze della guerra nucleare.

L’incontro con Peter Gabriel (nel 1986 duettano nella celebre Don’t give up, compresa in So dell’ex Genesis), influenza The Dreaming, scuro e impegnativo, ricco di percussioni etniche dove deforma la voce che arricchisce e sovraccarica volutamente di effetti. Tre anni dopo (1985) riappare e sorprende ancora una volta, con un disco – Hounds of love – dove dimostra, ancora una volta camaleontica come anche un territorio scivoloso, l’incedere dance del singolo Running Up That Hill, possa convivere con stili e musicisti diversi provenienti dal folk, dal jazz al rock impegnato.

C’è invece molta Irlanda nel successivo The Sensual world (1989) dove ospita le Voci Bulgare e l’amico David Gilmour e lascia spazio anche al sofisticato Michael Nyman. Poi inizia un decennio di ripensamenti: un solo album – l’irrisolto The Red Shoes (1993), tanto da far passare dodici anni per Aerial (2005) doppio cd e tentativo – riuscito – di ritrovare il tempo perduto, confermato sei anni dopo (2011) da 50 Words for Snow, una sorta di processo catartico musicale che ha aperto le porte al clamoroso ritorno ’dal vivo’ di Kate Bush.