Shame on us, ovvero «vergogniamoci». È il titolo, scelto dopo molte polemiche, di un reading di poesie di Franco «Bifo» Berardi che ha preso il posto della sua performance Auschwitz on the Beach, programmata nell’ambito di documenta, la rassegna, giunta alla quattordicesima edizione, che ogni cinque anni fa a Kassel il punto sulla produzione artistica contemporanea (chiuderà il 17 settembre). La risposta assai irritata dei curatori – Adam Szymczyk, direttore artistico, e Paul B. Preciado, responsabile delle attività pubbliche –, alla polemica, feroce, sulla scelta di Berardi di accostare la Shoah alla condizione contemporanea di migranti e rifugiati, rivela un aspetto sintomatico dell’esposizione di quest’anno, la prevalenza appunto di un sentimento di vergogna, o meglio di colpevolezza, assunto come Leitmotiv tanto dell’impalcatura ideologica quanto della scelta di larga parte delle opere. Un dito puntato insomma verso le innegabili responsabilità dell’Europa e dell’Occidente nella tragica sequenza di guerre, crisi economiche, catastrofi umanitarie, disastri ambientali della nostra epoca, ma anche verso il discorso «neocoloniale, patriarcale, eteronormativo» – come scrive Szymczyk nell’enfatico gergo «radical» che permea tutti i testi di questa documenta – che intesse «l’ordine egemonico della macchina da guerra neoliberale».

Vergogniamoci, dunque, come richiesta di responsabilità collettiva, come appello morale, come cauzione estetica. Già il titolo di documenta 14, Learning from Athens, fornisce del resto un’indicazione precisa: fisicamente dislocata tra la cittadina tedesca e la capitale greca (dove si è chiusa il 16 luglio scorso), la mostra mette sotto accusa l’eurocentrismo partendo dai più drammatici fallimenti recenti dell’Europa – la feroce crisi del debito e la tragedia dell’emigrazione – per risalire all’indietro al colonialismo e ai suoi effetti, culturali e materiali, sugli altri. «Imparare da Atene» significherebbe allora prendere misura della definitiva fine dell’innocenza per il mondo dell’arte, recidere finalmente la sua dipendenza dal mercato, e insieme ratificare una radicale desoggettivazione come unica possibilità per una cultura occidentale screditata dalla sua troppo lunga connivenza con il potere.

Ma è davvero utile invocare l’intero catalogo del pensiero radicale degli ultimi quarant’anni – post-colonial, gender e queer studies, decostruzionismo, foucaultismo ecc. (si veda in merito il Reader che accompagna la mostra) – riversandolo, maldestramente, nella pratica e nella critica dell’arte, per limitarsi a gridare «vergogna» (e, magari, «vendetta»)? Mai forse come in questa edizione di documenta si è assistito in effetti a un contrasto così accentuato tra l’ambizione a dare visibilità a un mondo dell’arte da tempo uscito dai ristretti confini occidentali, alla sua contraddittoria dimensione «globale», e la consistenza delle opere chiamate a testimoniare questa nuova configurazione. Basti pensare a due dei lavori più visti a Kassel, il Parthenon of Books di Marta Minujín – realizzato includendo in una replica a scala reale del monumento migliaia di libri «proibiti» o censurati, offerti dal pubblico – e il lavoro di Olu Oguibe, Monument for Strangers and Refugees (2017), un obelisco di cemento grigio su cui è riportato in quattro lingue il versetto del Vangelo di Matteo «ero straniero e mi avete accolto».

Entrambi esempi eloquenti di un’attitudine – avvertibile in molti altri casi – che si vorrebbe militante ma che alla fine appare animata solo da un vago e banale populismo progressista.

Far emergere la colpa è possibile solo convocando il passato come testimone a carico. Di qui l’onnipresenza a documenta 14 – ma è un tratto comune a tante esposizioni internazionali degli ultimi anni – dell’archivio come oggetto e come metodologia, tanto più se fosse andato in porto il progetto di esporre nella sua interezza la «collezione» accumulata da Hildebrand Gurlitt, uno dei mercanti incaricati dai nazisti di gestire la vendita di opere di «arte degenerata», e sequestrata a suo figlio Cornelius nel 2012. Sono numerosi comunque gli echi della tragedia tedesca del XX secolo, dalla vasta installazione di Maria Eichhorn, Rose Valland Institute (2017), vero e proprio archivio in progress di opere d’arte confiscate dai nazisti ai proprietari ebrei, ai lancinanti disegni di Władysław Strzeminnski ispirati alla distruzione del ghetto ebraico di Łodz nel 1940, fino alla beffarda serie di ritratti fotografici di gerarchi nazisti (Real Nazis, 2017) di Piotr Uklanski, che include, a sorpresa, Joseph Beuys, e a interventi curatoriali più enigmatici – ma al cui fondo sta la denuncia del mito ellenico come prodotto dell’immaginazione germanica, da Winckelmann in poi – come l’inclusione di una veduta del Partenone di un pittore prediletto da Hitler, l’oscuro Alexander Kalderach.

Su una scala diversa, numerose sono le opere che rileggono dal versante dei soggetti subalterni la vicenda coloniale, come i disegni e le fotografie di Zainul Abedin, Chittaprosad e Sunil Janah che evocano la terribile carestia in Bengala del 1943-’44, di cui il brutale sfruttamento del Raj britannico fu fattore scatenante, o danno direttamente la parola ai soggetti subalterni, a outsiders come Beau Dick, che reinterpreta in chiave anticoloniale maschere tradizionali della cultura Kwakw’ala, Gordon Hookey, il cui grande murale Murriland! (2017) illustra con accenti pop narrazioni aborigene australiane, o come Britta Marakatt-Labba, il cui ricamo Historja (2003-’07) illustra miti del popolo Sámi. Ci si potrebbe chiedere tuttavia, in questi e molti altri casi, cosa, al di là del loro valore testimoniale, renda questi lavori necessariamente eterodossi, cosa, al di là dell’ambivalente e sempre problematica relazione tra autore, opera, contesto, le qualifichi in senso propriamente artistico, fatte salve le elucubrazioni di Szymczyk e Preciado sulla agency liberatoria e la body politics alla base della loro inclusione.

Non mancano ovviamente tra i 160 artisti invitati personalità dotate di quella forza di «insubordinazione poetica» così ricercata dai curatori. Oltre a diversi, interessanti recuperi di figure storiche, per restare ai contemporanei mi limiterò a citare ad esempio il video dell’israeliano Roee Rosen, The Dust Channel (2016), che mescola in forma di operetta noir una singolare ossessione domestica per gli aspirapolvere, found footage e riferimenti obliqui alla politica israeliana nei confronti dei rifugiati, o l’intensa videoinstallazione di Artur Zmijewski, Realism (2017), in cui sei proiezioni in bianconero mostrano uomini con arti amputati, vittime di incidenti o forse di guerre senza nome, mentre eseguono in silenzio esercizi fisici in spogli ambienti domestici. Nel video Byzantion (2017) Romuald Karmakar riflette invece sui divergenti destini storici dell’Europa mettendo icasticamente a confronto la versione greca e quella slavonica dell’inno sacro Agni Parthene eseguito da due cori monastici.

Nel complesso, quella che si annunciava come un’apertura coraggiosa alla multiformità problematica del mondo artistico contemporaneo si è tramutata paradossalmente nell’edizione di documenta più «europea», o meglio euromaniaca, degli ultimi decenni. Ancora una volta, l’esperienza artistica viene additata schizofrenicamente come schermo di comodo dietro cui si cela la violenza del capitale e al tempo stesso come motore di una trasformazione politica che annuncia un’umanità nuova. Ancora un volta il paradosso dell’autonomia dell’arte riemerge a ricordare il suo fragile statuto, la sua intima dipendenza non da una origine, o da un’identità, per quanto questa possa essere pensata in termini «non normativi», ma dalla loro costante riconfigurazione: come attestazione dell’incompatibilità di due mondi (arte e vita) e, al tempo stesso, della possibilità di rendere permeabile il confine che li separa. In tempi difficili e violenti come gli attuali, anziché quella della colpa, è l’esperienza dell’eterogeneità conflittuale dentro il soggetto la chance, precaria quanto irrinunciabile, che solo l’arte è in grado di offrire.