Nella giornata di ieri il partito conservatore hindu Bharatiya Janata Party (Bjp), formazione politica guidata dal primo ministro indiano Narendra Modi, ha deciso di sciogliere l’alleanza con il Peoples Democratic Party (Pnp) di Mehbooba Mufti, con cui dal 2014 governava lo stato del Jammu e Kashmir. Staccando la spina alla coalizione di governo, il Kashmir si prepara ora ad affrontare una grave crisi politica giunta al culmine di tensioni e violenze che hanno portato ai minimi storici i rapporti di convivenza tra la società civile kashmira e le centinaia di migliaia di agenti delle forze di sicurezza indiana, considerati dalla maggior parte dei kashmiri alla stregua di «forze di occupazione straniera».

Dal quartier generale del Bjp di New Delhi, il segretario generale del partito Ram Madhav ha annunciato che, a seguito di una riunione dei vertici del partito presieduta dal presidente del Bjp Amith Shah, è stato deciso di riconsegnare le redini del Jammu e Kashmir nelle mani del governatore per «riportare sotto controllo la situazione nello Stato», tenendo a mente che il Jammu e Kashmir «è parte integrante dell’India». Venuto meno il sostegno del Bjp, anche la chief minister del Jammu e Kashmir Mehbooba Mufti è stata costretta a rimettere il mandato nelle mani del governatore NN Vohra, chiamato a traghettare lo Stato al confine col Pakistan verso nuove elezioni.

Durante l’amministrazione Mufti, in Kashmir si è registrato un vertiginoso aumento degli scontri tra militanti separatisti e forze dell’ordine, esacerbati da un’azione violenta e repressiva costante che ha impegnato polizia ed esercito in operazioni di «tolleranza zero» rivolte alle diverse anime della militanza kashmira. Lo scontro ha raggiunto l’apice nel 2016, quando in seguito all’uccisione di Bhuran Wani, giovane comandante del gruppo indipendentista Hizbul Mujahideen, l’intera valle del Kashmir è stata attraversata da proteste collettive contro le forze dell’ordine, incoraggiando una nuova ondata di arruolamenti nelle file della militanza da parte di centinaia di giovani kashmiri.

In tutta risposta, i soldati e gli agenti di polizia dispiegati nel territorio più militarizzato al mondo – si parla di 700mila militari in uno Stato abitato da poco più di 12 milioni di persone – hanno attivamente represso il dissenso ricorrendo all’utilizzo di munizioni a pallettoni che, secondo un recente rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, hanno causato almeno 17 morti e oltre 6.200 feriti tra la popolazione civile e disarmata.
La crisi di governo innescata dal Bjp segna il fallimento sostanziale dell’agenda su cui si fondava l’alleanza col Pnp di Mufti: l’apertura del dialogo con i vertici del separatismo locale e lo sviluppo economico del Kashmir come antidoto contro il terrorismo e il separatismo.

In tre anni di governo, la popolazione kashmira non ha visto nulla di quanto promesso dall’amministrazione Pnp-Bjp, affrontando invece un progressivo aumento delle violenze da parte dell’esercito e di fatti di cronaca che hanno profondamente colpito l’opinione pubblica locale.

Nel mese di gennaio a Kathua, in Jammu, un gruppo di civili e poliziotti di fede hindu ha violentato e ucciso una bambina di soli otto anni appartenente a una comunità di pastori nomadi musulmani. In quell’occasione, parte della comunità hindu locale scese in piazza a difesa degli stupratori, guidata da due ministri dello stesso Bjp. Pochi giorni fa, nel bel mezzo della «press enclave» di Srinagar, capitale del Kashmir, un commando di terroristi – non ancora identificati – ha ucciso Shujaat Bukhari, direttore del quotidiano locale in lingua inglese Rising Kashmir. L’assassinio di Bukhari, giornalista molto noto in Kashmir, in una delle zone più controllate e sicure di Srinagar ha dato adito a numerose speculazioni e dietrologie circa la motivazione di un omicidio politico in grado di destabilizzare ulteriormente una situazione già critica nello Stato.

Col partito di Modi fuori dall’amministrazione locale, il Kashmir ora rischia di vedere intensificarsi la repressione militare, specchio di un’intransigenza che il Bjp, già in campagna elettorale per le nazionali del 2019, intende adottare per polarizzare ulteriormente l’elettorato.