Un agente di polizia e un militante di una cellula terroristica islamica sono morti ieri in uno scontro a fuoco a Baramulla, nel Kashmir amministrato dall’India. Secondo quanto rivelato dalle forze di polizia del Kashmir, il miliziano avrebbe fatto parte del gruppo Lashkar-e-Taiba, organizzazione terrorista pachistana tra le più attive oltreconfine.

Si tratta dei primi due morti confermati dal governo indiano dal 5 agosto, quando l’esecutivo guidato da Narendra Modi ha spogliato il Jammu e Kashmir dello status di «stato autonomo», per effetto della riformulazione dell’articolo 370 della Costituzione indiana.

Da allora, l’intera valle del Kashmir e i suoi quasi otto milioni di abitanti sono sottoposti a un regime restrittivo durissimo: sospensione delle telecomunicazioni, divieto di assembramento e arresti preventivi, con l’obiettivo – secondo New Delhi – di «mantenere la stabilità e la sicurezza».

Dopo quasi due settimane di blackout totale imposto dal governo indiano in tutto il Kashmir, da pochi giorni le autorità locali hanno proceduto a rilassare le disposizioni restrittive in atto. Alla spicciolata sono state riattivate le linee telefoniche fisse, mentre tutte le scuole sono state riaperte.

Ma secondo quanto filtra dal Kashmir, le aule sono rimaste deserte: i kashmiri hanno paura a far uscire i propri figli e le proprie figlie di casa, in città immortalate semi-deserte dalle foto diramate dalle maggiori agenzie di stampa internazionali.

Assieme alle fotografie, diversi media mainstream hanno confermato numerose sassaiole di manifestanti kashmiri contro le forze di sicurezza dispiegate a decine di migliaia in tutta la valle. Dopo che per giorni le autorità indiane hanno smentito qualsiasi tipo di protesta nel territorio kashmiro, insistendo che la situazione fosse tranquilla e sotto controllo, da qualche giorno i funzionari di polizia del Kashmir hanno iniziato a ritrattare.

Tre funzionari di polizia hanno dichiarato ad Ap che, nelle ultime due settimane, nella valle ci sarebbero stati almeno 300 episodi di protesta, tra sassaiole e manifestazioni. In particolare a Srinagar, la principale città del Kashmir, da almeno 30 anni centro del movimento politico autoctono per il Kashmir indipendente.

Le forze di sicurezza locali hanno risposto alle proteste reprimendo i manifestanti per strada – a decine feriti da colpi a pallettoni – e procedendo a raid nelle case dei kashmiri. Più testate internazionali e indiane indipendenti hanno raccontato di forze dell’ordine che sfondano nelle abitazioni dei kashmiri demolendo mobili e arrestando gli uomini più o meno giovani delle famiglie.

Arresti preventivi che in valle, da anni, sono operazioni di routine in concomitanza con proteste o date simboliche del movimento indipendentista kashmiro. Al momento non ci sono ancora dati ufficiali sul numero di arrestati in Kashmir. Le stime vanno da diverse centinaia fino a oltre quattromila, con le autorità locali che sarebbero state costrette a spostare detenuti fuori dal Kashmir. Nelle prigioni locali non c’era più spazio.

A luglio il presidente statunitense Donald Trump, durante la visita a Washington del premier pachistano Imran Khan, si era offerto come mediatore per risolvere la «questione kashmira», relativa alla contesa territoriale che interessa India e Pakistan dal 1949.

Pochi giorni fa Trump ha ribadito l’offerta, in vista del summit dei G7 in Francia fissato per il prossimo fine settimana, cui parteciperà anche il primo ministro indiano Modi. Per l’India, l’affare Kashmir rimane ufficialmente «questione interna».