È un tempo di veleni, incomprensioni, sgarbi reciproci e scontri quello che attraversa le gelide relazioni tra gli Stati Uniti e il governo di Hamid Karzai. Non passa giorno che non venga alla luce un motivo di frizione e la dose è rincarata da ambo le parti. Nessuno vuole cedere. L’ultima grana in ordine di tempo riguarda 72 talebani o presunti tali deputati a varcare gli angusti confini delle proprie celle. La giustizia afghana, che da qualche mese li ha in custodia dopo che la prigione militare americana di Bagram è passata in mani nazionali, ha deciso che le accuse americane erano deboli.

I casi esaminati sono stati quasi una novantina ma per 45 di loro la magistratura locale non ha trovato elementi certi e assai fragili per altri 27. Dunque liberi. Agli americani la cosa non è affatto piaciuta. Sulle prime, sia Washington sia Bruxelles han tenuto a freno la lingua (del resto gli afghani dovrebbero essere padroni in casa propria), poi però hanno cominciato a far fuoco e fiamme. Joseph Dunford, che riunisce nella stessa persona l’incarico di comandante Isaf/Nato e delle truppe americane di stanza in Afghanistan, ha detto chiaro e tondo di essere contro la decisione che per di più violerebbe il patto siglato in marzo quando le prigioni segrete di Bagram passarono in mano afghana. Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato statunitense, ha parlato di «errore» e del fatto che, una volta liberi, i prigionieri si riveleranno una minaccia. Hanno avviato indagini approfondite di un apposito comitato e poi hanno convocato un vertice con gli 007 e gli uomini del presidente prima di prendere la decisione finale.

Gli americani temono fortemente che i guerriglieri a piede libero tornino a combattere. Il che molto spesso è avvenuto ed avviene (ne son già stati liberati 500). Hamid Karzai invece, ritiene la liberazione della truppa assoldata dei talebani una delle tappe necessarie al processo di pace. Il fatto è che in questo momento c’è anche altra carne al fuoco. Ed è quella a far deragliare ogni cosa su un binario morto. Dalla fine dell’anno scorso si discute del Bsa, l’accordo di partenariato strategico sulla sicurezza che Washington e Kabul han messo a punto ma che Karzai si rifiuta di firmare. Non è una semplice melina diplomatica. «Se il presidente lo firmasse» racconta un funzionario afghano «potrebbe domani esser accusato di tradimento. Di aver svenduto il Paese agli americani». Per far dunque un’uscita di scena memorabile e sgombra da qualsiasi ombra compromissoria, convinto forse che ciò possa spianargli la via a una ricandidatura alle prossime elezioni, Karzai vuole lasciare dopo il voto di aprile – dove spera di assicurare la presidenza a un suo candidato, probabilmente Zalmai Rassoul – senza aver firmato il Bsa. Il nervosismo con cui gli americani stanno reagendo rivela quanto tengano in effetti all’Afghanistan.

Ieri il Washington Post ha pubblicato un memo segreto scritto dall’ambasciatore americano a Kabul, James Cunningham, nel quale si dice apertamente che con ogni probabilità il presidente Karzai non firmerà. Gli americani, a questo punto preoccupati, insistono che l’accordo debba essere firmato non «nell’arco di mesi ma di settimane», ma il diplomatico ha reso noto ai suoi superiori che di quella firma potrebbe non parlarsi che dopo le presidenziali di aprile. Gli americani (e l’Alleanza atlantica di conserva) hanno paventato a Kabul l’opzione zero, ossia un ritiro definivo dei soldati alla data dell 31 dicembre 2014 e, fatto perfino più ricattatorio, l’azzeramento dell’assegno promesso per pagare stipendi e acquisto di armi all’esercito nonché di quello necessario a investire in sviluppo e strutture.

Ma per ora la leva di questo ricatto ha sollevato solo una gran polemica e più gli americani insistono più sembrano rivelare ciò che non vorrebbero emergesse con troppa evidenza: ossia che non hanno nessuna intenzione di andarsene e che intendono controllare, con la Nato, più di una decina di basi militari nel cuore del Paese centroasiatico, a un pugno di chilometri dall’Iran, dal Pakistan, dalla Cina e dai Paesi dell’ex Unione sovietica.

È abbastanza chiaro che il presidente afghano Hamid Karzai, al quale non manca un certo fiuto politico, ha capito benissimo che tutto questo gli dà aggio per tirare la corda e preparare un’uscita di scena che equivale all’ideazione di un eventuale futuro rientro, a quel punto con l’aura intatta del nazionalista.