Karl-Otto Apel, che si è spento lunedì all’età di novantacinque anni, è stato uno dei più acuti e importanti filosofi della seconda metà del Novecento. Apel infatti, a differenza di molti altri scrittori di filosofia che vanno per la maggiore, era un vero filosofo. La sua lucidità di pensiero lo collocava su un piano decisamente superiore rispetto a tanti altri che pure hanno goduto di grande fama. Apel, come ha potuto verificare chi ha avuto la fortuna di partecipare a qualche suo seminario, aveva una passione profonda e autentica per il ragionamento filosofico: instancabile nel discutere e argomentare, anche in tarda età, apparteneva alla piccola schiera di quelli che si possono davvero definire maestri.

IL SUO PERCORSO filosofico è stato caratterizzato da una straordinaria ricchezza e vastità di interessi. Nato nel 1922, aveva esordito con una grande monografia su L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo, da Dante a Vico (pubblicata nel 1963), mirabile sintesi di sapienza erudita e interpretazione teoretica. E, a partire da lì, gran parte della sua riflessione ha avuto come centro il linguaggio. Formatosi infatti nella grande scuola tedesca dell’ermeneutica, Apel ne dava però una lettura del tutto particolare: non andava nella direzione di Gadamer, rifiutava la curvatura dell’ermeneutica verso il relativismo o verso il pensiero debole, ma ricercava invece, partendo dall’indagine sul linguaggio, i principi irrinunciabili della razionalità critica e discorsiva, dotati di una valenza non solo teoretica ma anche etica. La sua posizione, in fondo, era molto lineare: nello stesso atto del discorrere, sosteneva, è immanente una pretesa di verità che non può essere liquidata nel senso dello storicismo o del relativismo, e alla quale il pensiero filosofico si deve attenere, pur nella consapevolezza che la verità non si possiede qui e ora, ma è piuttosto da intendersi come un punto limite, al quale potrebbe pervenire solo quella che Apel chiamava una «comunità ideale della comunicazione».

A partire da qui Apel ha sviluppato negli anni Settanta, in stretta cooperazione con Jürgen Habermas del quale è stato collega a Francoforte, quella che entrambi hanno definito come un’etica del discorso. Essa si fonda sull’idea che ogni soggetto che partecipa a uno scambio discorsivo o argomentativo presuppone necessariamente il rispetto per ogni altro parlante e dialogante, per le sue pretese, interessi e bisogni. È nel linguaggio, dunque, che si deve ricercare l’autentico e profondo fondamento dell’etica, quello che sfugge sia alle filosofie scientiste, sia alle ermeneutiche relativiste. Nella difesa della ragione e del suo contenuto anche moralmente impegnato Apel era consapevole di andare decisamente controcorrente; e non temeva di parlare, provocatoriamente, di una «fondazione ultima dell’etica», mentre la chiacchiera filosofica si cullava nell’idea del «sapere senza fondamenti» o nella demistificazione della volontà di verità come volontà di potenza.

SOBRIO E MISURATO come un bravo professore tedesco, Apel sapeva però essere anche radicale. Aprì un dialogo intenso con Enrique Dussel, il marxista che aveva trasformato la teologia della liberazione in filosofia della liberazione, e disse che questo incontro gli aveva ulteriormente aperto gli occhi sui limiti delle esistenti democrazie occidentali. Giustizia, co-responsabilità e solidarietà avrebbero dovuto essere i principi di una nuova etica planetaria sulla quale Apel (che era un autore di saggi più che di libri) ha riflettuto soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita filosofica.