L’ipotesi è che l’incatenare e il liberare, il dormire e il risvegliare, la fuga e il ritorno mostrino una valenza morfologica identica: decine di immagini accompagnano le testimonianze che contribuiscono a comprovare questo tema, ricorrente nei saggi raccolti da Karl Meuli, curatore delle opere di Bachofen, nella raccolta Gli dèi incatenati (traduzione di Stefano Marchesoni, Neri Pozza, pp. 320, € 22,00). Il titolo del libro, che intreccia filologia, storia delle religioni e etnologia, è tratto dall’ultimo saggio che forse andrebbe letto per primo allo scopo da farsi un’idea della tessitura profonda dell’intero lavoro.

Dionisie e Lenee
Ai rituali del dio che scompare per poi tornare, che riguardano molte divinità greche, da Dioniso a Artemide a Crono ma anche a Ermes e al Titano Prometeo, sono dedicati due lavori del 1943 titolati Le maschere tedesche e Le maschere svizzere, dove la triplice funzione delle maschere emerge chiaramente dalla commedia che apparteneva insieme alla tragedia alle feste delle Dionisie e delle Lenee: come all’epoca delle processioni dei mendicanti, le maschere fanno la questua (della quale non si può escludere la trasformazione violenta in furto); inoltre, le maschere scherniscono – una delle principali funzioni della commedia; e benedicono: sono protettrici di tutte le cose buone, spargono semenze, producono quella che si chiamava «panspermia».

È evidente l’ambivalenza delle maschere nel loro essere portatrici di bene e di male. Nelle feste più antiche di Dioniso, nelle Antesterie, era anche evidente l’occasionale rovesciamento sociale: in quel tempo rituale i signori non potevano dare ordini ai servitori, come nei Saturnali romani.

Un complesso di comportamenti è legato alle feste delle anime dei morti che, alla fine, venivano nuovamente allontanate. Lo scenario indagato da Meuli è molto vicino, per sua stessa ammissione, a quello assunto come schema di riferimento da Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni e, per certi versi, da Vittorio Lanternari in La grande festa. Caratteristiche principali: la cacciata della morte, dell’inverno, dei mali e dei demoni, lo spegnimento e la nuova accensione del fuoco; il sovvertimento dell’ordine consuetudinario e i cortei delle maschere, a rappresentare gli spiriti degli antenati defunti che prima dovevano essere accolti e poi cacciati via. Erano, queste, cerimonie di espiazione e di purificazione che permettevano di «chiudere o cacciare l’anno vecchio per poter cominciare quello nuovo purificati e di buona lena».

A questa sorta di bilanciamento «espiatorio» somiglia anche la temporanea licenza concessa ai subordinati, nelle feste degli «dei legati». Si ritrovano così caratteristiche simili in società molto antiche, distanti tra loro geograficamente e temporalmente. È nella comparazione etnologica che Meuli trova la chiave per entrare in questi riti, superando i confini della ricerca filologica di cui era, peraltro, un raffinato specialista. La grande festa tessalica chiamata Peloria la spiega, ad esempio, come celebrazione del ritorno degli antenati morti: il mondo si rovescia, i prigionieri vengono liberati, gli stranieri e gli schiavi vengono invitati ai banchetti, è concessa loro libertà di parola mentre i signori si mettono al loro servizio.

Nella liberazione dai legami e nel ritorno dei morti, proprio come nelle maschere «si manifesta il nesso tra vita e morte, tra felicità e terrore». Dèi e antenati sono malvagi e pericolosi, perciò devono essere impediti dalle catene o tenuti lontani dalla vita del gruppo; ma una volta slegati o riaccolti, possono diventare indulgenti, benevoli, portatori di felicità. Anche il contrario può accadere, ovvero che i legacci servano a tenere presso di sé poteri dai quali ci si aspetta aiuto e protezione, e la liberazione degli dèi o il ritorno degli antenati sia da temere e da scongiurare. Sono movimenti e forme di rituali diversi, che sottolineano la loro convergenza, al di là delle apparenze contrarie: in questa tensione degli opposti pare trovare espressione l’ambivalenza di fondo che connota, in tutte le culture, l’atteggiamento umano nei confronti della morte, così come il senso di colpa e l’espiazione, la punizione affiancata alla liberazione e alla rinascita.

Meuli diffida dei moderni «mitologi» che si compiacciono di una miscela di misticismo vitalistico condito da un po’ di sociologia e di psicologia del profondo, ma ritiene anche che il solo lavoro, pur indispensabile, della raccolta di testimonianze e documenti, conduca poi a un rassegnato «ignoriamo e ignoreremo». Il suo impasto di discipline è sempre sorvegliato, e molto frequente l’accostamento di rimandi filosofici a Lessing, a Schopenhauer o a Plessner, con rinvii etnologici, alla notazione filologica o storica.

Erudita e ben controllata, la ricerca va messa da Meuli al servizio di uno spirito intuitivo che non inventa, ma trova: «oggi sappiamo bene che l’agire umano è determinato solo in piccola parte dall’intelletto, essendo piuttosto dominato da potenze irrazionali e carico di passioni, desideri, angosce, allucinazioni e pulsioni. L’uomo è ben di più che un cervello calcolante, è qualcosa di più oscuro e violento. Di conseguenza anche la religione è più profonda, più oscura, più ampia degli stratagemmi escogitati dall’intelletto in vista di scopi precisi».

Perciò, Meuli non esita a dichiarare che l’ambivalenza nei confronti della morte e dei defunti portata allo scoperto dalla psicoanalisi è una delle chiavi di lettura decisive della funzione delle maschere e degli dèi in molti rituali presenti in società di cacciatori e di raccoglitori, così come in società fondate sullo schiavismo e sul debito fino alle soglie dell’età moderna e persino, per alcuni aspetti, fino a pochi secoli fa.

L’immagine del furore
Tremendo è ricordare come la cacciata di centinaia di migliaia di fittavoli insolventi, perché di fatto espulsi dalla pastorizia ben più redditizia per i proprietari terrieri, sia a volte anche accompagnata da condanne e cerimonie di devastazione, dove si conserva l’immagine di quel furore, «che si scatena immediatamente e violentemente». Un furore con cui la comunità che si sente minacciata cerca di liberarsi dal suo nemico.

Contro questo capro espiatorio socialmente debole si scatena la persecuzione di ciò che si teme e sembra incontrollabile, una ritualità che mostra in filigrana quella oscillazione tra angoscia di annientamento e speranza di rinnovamento che attraversa riti tra loro diversi, come la sfida del duello e la gara, consuetudini giuridiche e Carnevale, le usanze funerarie e le punizioni dei supposti colpevoli, fino al «capro» dionisiaco, punito perché colpevole nei confronti della vite e occasione del convenire gioioso della comunità. Sono scambi simbolici che cercano di esprimere ambivalenze e conflitti nel tentativo di scongiurare esplosioni incontrollate che, più o meno oscuramente, ne minacciano gli equilibri delle comunità.

Una sorprendente varietà di temi antropologici, concorrono a creare la proposta interpretativa di Meuli, senza che essa venga in primo piano, se non come sottile, eppure robusta, tessitura di un arazzo di solido impianto strutturale. Peccato che molte citazioni in greco, in latino, alcune in svizzero tedesco di secoli fa, non vengono tradotte neppure in nota.