In Cina per fare il giornalista serve una specie di tessera, ma sono in molti a scrivere senza averla. E soprattutto dal 2014 non sarà più quello il problema. Da gennaio, o forse febbraio, partiranno infatti i nuovi test elaborati da quei geniacci del male della Propaganda del Partito comunista. Si tratta di test «ideologici», frutto di un tomo di 700 pagine («Materiale preparatorio per redattori e giornalisti») che i reporter cinesi, o aspiranti tali, dovranno studiarsi. Sono previste anche lezioni e sessioni di studio, di cui pare ci sia l’obbligo di frequenza, ma molti dei reporter cinesi si sono dati malati o in ferie, o impossibilitati a presenziare.
Eppure i test saranno fondamentali per poter esercitare la professione. Secondo alcuni che si sono espressi su Weibo, il Twitter cinese, o hanno rilasciato interviste anonime ai media internazionali, potrebbe trattarsi di un esperimento unico, ovvero che non verrà ripetuto nel tempo. Di sicuro è una novità rilevante, per quanto grottesca, da leggere all’interno di quella strategia di Xi Jinping, tesa a radunare intorno al Partito tutte le forze possibili, garantendo una sorta di unicità ideologica.

Test di marxismo

Cosa significa dunque «socialismo con caratteristiche cinesi», o cosa intende Xi Jinping con «sogno cinese»? Sono alcune delle domande cui sarà necessario imbroccare la risposta giusta. Nel manuale si specifica che affinché si possa informare adeguatamente, è necessario sapere le basi della politica ideologica del Partito, evitando quindi di disinformare, attraverso notizie o articoli che possano uscire dai canoni prescritti.
Fare giornalismo in Cina non è semplice: spesso i reporter locali si scontrano contro argomenti considerati «sensibili» o con i diktat dei membri della Propaganda, una cui rappresentanza è presente all’interno di ogni redazione (a questo proposito un noto giornalista di Xinhua, l’agenzia ufficiale di stampa cinese, è un noto scrittore di fantascienza: scrive le news obbligate, che poi trascende in racconti di science fiction). Riguardo la presenza del Partito nelle redazioni, esattamente un anno fa, proprio lo scontro tra redattori e capo della propaganda di un noto quotidiano del sud della Cina, aveva dato il via ad un clamoroso sciopero, di cui avevano trattato anche i media internazionali. E a proposito di giornalisti esteri, il manuale del perfetto giornalista cinese, prende anche le distanze dal modo di concepire le notizie nel resto del mondo, specificando che esistono differenze, ma che «c’è molta varietà riguardo la modernizzazione, e quindi è normale che tra Oriente e Occidente ci siano delle differenze, ma dire modernizzazione, non significa dire occidentalizzazione. E sicuramente l’occidentalizzazione, non può essere intesa come americanizzazione». Piuttosto chiaro.

La vicenda dei visti dei media stranieri

E proprio nei confronti dei media occidentali in Cina, nell’ultimo periodo dell’anno si è svolta una polemica feroce, dopo che i reporter del New York Times e di Bloomberg avevano denunciato il mancato rinnovo dei visti. Le due testate avevano lasciato intendere di essere sotto il tiro del Partito, a seguito di reportage sulle ricchezze dei politici locali. Si era paventato anche il rischio espulsione per molti di loro.
Non a caso durante le giornate di incertezza sui visti, il Global Times, spin off dell’ufficialissimo Quotidiano del Popolo, in un editoriale in inglese aveva sparato a zero sui media stranieri: «Le autorità cinesi – si è scritto – non adempiono al loro dovere se permettono ai media occidentali di lavorare in Cina senza controllo. La sicurezza delle informazioni è fra le preoccupazioni principali per il paese. La Cina è disposta a comunicare con il mondo, ma non rinuncerà alla propria definizione dei diritti a causa dei media occidentali». Alla fine tutto risolto: sia il New York Times, sia Bloomberg, hanno ottenuto i visti e ad oggi l’unica giornalista espulsa dal paese negli ultimi anni risulta Melissa Chan, una reporter di Al Jazeera (cui non venne rinnovato il visto dopo un servizio televisivo sulle «black jail», i luoghi nei quali vengono detenuti, illegalmente, le persone – note come «petizionisti» – che arrivano dalle province per chiedere giustizia al Partito Comunista di Pechino). Durante i giorni in cui non c’era certezza circa il rinnovo dei giornalisti del New York Times, Thomas Friedman, editorialista del quotidiano aveva scritto una «lettera aperta» a Xi Jinping esortandolo a cambiare rotta: «Credo che si stia per fare un terribile, terribile errore se caccerete tutti i nostri corrispondenti dalla Cina. Nel caso, posso dirvi esattamente cosa accadrà: saranno istituiti uffici a Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud e non faranno altro che spulciare i documenti finanziari da lontano, senza la possibilità di bilanciare tali notizie viaggiando in Cina, incontrando e sentendo il popolo cinese faccia a faccia, e scrivendo con sfumature su altre questioni. Inoltre, ci costringerà a sfrattare i vostri giornalisti. Non vi lasceremo godere della nostra apertura mentre noi veniamo imbavagliati». C’è da chiedersi cosa ne pensino dalle parti dell’agenzia Bloomberg, colta a censurare reportage sui miliardi e i politici cinesi, per non incorrere in sanzioni da parte di Pechino.

La narrazione di Xi

Secondo la maggior parte degli osservatori, le scelte dell’Ufficio della Propaganda sarebbero in linea con le nuove direttive del Presidente Xi Jinping, che da tempo lavora per una rinnovata unità ideologica, in grado di rispettare la cosiddetta «linea di massa», terminologia maoista che indica la volontà di tenere sempre saldo il rapporto tra il Partito e la popolazione, considerando l’unione ideologica, come la vera forza della Repubblica Popolare. Non a caso nel libro per gli aspiranti giornalisti si legge: «A differenza dei paesi occidentali, la funzione più importante per le notizie dei media del nostro paese è di essere le orecchie, gli occhi e la bocca per il partito e per il popolo. Affinché questa funzione sia svolta al meglio, le notizie dei media nel nostro paese devono essere fedeli al partito, aderire alla leadership e rendere il principio di lealtà al partito come il principio della professione giornalistica».
Xi Jinping quindi, con questa scelta che discende dalla sua autorità, si conferma una leader ambivalente. Tanto riformatore in termini economici, nonché sociali – basti pensare alle storiche riforme della legge del figlio unico e dell’abolizione dei campi di lavoro – quanto tradizionalista dal punto di vista dell’utilizzo della propaganda e della retorica maoista. Del resto Xi Jinping, contrariamente ai suoi illustri predecessori, non si è ritrovato al suo posto di numero uno in quanto indicato dal leader precedente, bensì al termine di un processo collettivo. Se questo gli ha permesso una salita al potere circospetta e con tempismi adeguati, ha altresì creato la necessità di guadagnare – centimetro dopo centimetro – tutto il Partito, piazzando i propri uomini nei gangli più vitali della macchina politica ed economica dello Stato cinese.
Per fare questo ha dovuto tenere duro e indicare sempre con molta precisione i propri obiettivi, attorno ai quali far partire la gran cassa della Propaganda. Lo ha fatto con i rivali politici, attraverso una sontuosa campagna anti corruzione e ora sembra voler passare alla fase legata agli immaginari e alla narrazione del proprio angolo nella storia cinese. Naturale che i giornalisti, coloro che dovranno raccontare le gesta del Sogno Cinese, siano dunque vagliati, in quella che appare sempre più una progressione verso una contemporanea società della conoscenza.