Vista la situazione del nostro Paese questo disco sembra arrivare nel momento in cui se ne ha più bisogno. Malala è l’album indipendente pubblicato dalla beatmaker italiana di origine liberiana, Karima 2G, quattro anni dopo 2G (Soupu Music). Un lavoro che è una composizione di suoni fra world music e beat afro elettronici, dove un attimo sembra di stare in qualche metropoli occidentale e un secondo dopo di camminare per le strade di Monrovia. Karima ha la capacità di far parlare il meticciato senza rottura, con continuità: «Malala rappresenta uno specchio tra due culture, l’Africa e l’occidente. Le mie due nazionalità, identificandosi l’una con l’altra, parlano attraverso la mia musica. Nessuna delle due domina o si pone con supremazia sull’altra, piuttosto creano insieme una pacifica continuità».

Nel disco vengono raccontate le discriminazioni in vari ambiti, con parole che valgono per tutti i paesi del mondo: «L’uomo discrimina perché si limita a ciò che crede di vedere nell’altro, impedendosi così di esplorare l’altro oltre la sua pelle o il suo genere. Dal colonialismo in poi, la donna in un corpo nero diventa «oggetto» e «stereotipo»: è esotica, selvaggia, attraente ma al tempo stesso rimane una schiava da dominare in quanto inferiore. La traccia U don’t know me racconta della rivalsa di una donna che ritrova il suo potere femminile e si libera di un maschio autoritario».

Cantare in inglese in Italia è sempre un pericoloso gap, tanto più se si hanno origini straniere: «Penso sia arrivato il momento di riempire questo gap. L’Italia, che lo si riconosca o no, è un Paese multietnico e multilingue. I miei testi non sono semanticamente esatti, ragione per cui in molti mi chiedono di cantare in italiano, ma il mio intento è quello di stimolare alla globalizzazione di più culture». La cronaca recente ci parla di un razzismo diffuso. Malala, dal Nobel per la pace Malala Yousafzai e come Malalai Anaa, eroina della battaglia di Maiwand, è quasi una risposta naturale, carico ma senza eccessi, con tanti messaggi di protesta di un’artista che sembra vivere sulla sua pelle il razzismo: «Il razzismo in Italia è un tabù di cui nessuno parlava, ma di cui tutti conoscevano l’esistenza. Combattere il razzismo significa combattere se stessi. Non credo più nella lotta ma nell’integrazione e nel riconoscimento del razzismo come la parte più oscura dell’uomo. L’uomo diviene razzista perché si sente incapace di integrare lo straniero che è dentro di sé e prende di mira lo straniero reale esterno, una parte mancante di lui che non riconosce. A chi dice ’non sono razzista però’ non devo raccontarmi, voglio comprendere il suo disagio: più si accetta il razzista e più si diventa grandi. Io non vedo colori né generi, vedo solo uomini».

Karima vive in periferia a Roma, vicino a un centro di accoglienza e raggiunge ogni giorno il centro per studiare in una prestigiosa un’università americana: «Tempo fa ho assistito all’aggressione verbale e fisica da parte di un vigilante a un ragazzo rifugiato. Gli urlava contro usando il plurale, riferendosi a tutta la comunità africana. Sono stata zitta fino a quando ha gridato ’’non vengo come voi negri dai campi di cotone!’ e, in un attimo, delle voci interne mi hanno scaraventata davanti a lui. Gli ho detto che ci sono persone che sono morte e altre che hanno lottato per conquistare i propri diritti e liberarsi dalla schiavitù. Mi ha risposto ’Ma che, me voi imparà la storia?!’ e ha iniziato a insultarmi… Questa è l’atmosfera di tensione che si vive spesso prendendo il bus da Castelnuovo di Porto a Roma. Come racconto in Police, più volte sono stata fermata dalla polizia sotto casa, perché ’troppo immigrata’ per poter vivere e possedere una casa in una zona residenziale privata. Rimangono decisamente spiazzati quando, in maniera molto diplomatica e sorridente, li invito su a casa a prendere un caffè».