Alias

Karen Dalton, l’outsider

Karen Dalton, l’outsiderKaren Dalton

Visioni/Un docufilm riaccende i riflettori sulla cantautrice Usa La vita dell’artista raccontata in «A Bright Light» della regista Emmanuelle Antille. Disponibile on demand su Vimeo e Dafilms

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 5 settembre 2020

È cosa risaputa che la resurrezione di Nick Drake iniziò nel 2000, quando una casa automobilistica tedesca decise di vendere la sua nuova cabrio agli studenti dei college americani: fu sufficiente uno spot di un minuto perché le vendite di Pink Moon passassero da 6mila a 74mila copie all’anno. Da allora le sue canzoni compaiono spesso anche nelle colonne sonore di film, come I Tenenbaum e Serendipity (entrambi del 2001), o in serie tv come la recente Normal People. Oggi difficilmente uno spot potrebbe replicare quella prodezza di marketing – certi miracoli ormai bisogna aspettarseli solo dai music supervisor – ma sarebbe bello se la stessa cosa accadesse anche a Karen Dalton, una musicista che per varie ragioni – la voce straordinaria, la passione per il blues, l’enorme talento, l’insuccesso, la vita tragica e misteriosa – sembra essere l’equivalente americano di Nick Drake.
Per questo sentire la sua voce in un episodio della serie I Am not Okay with This (2020) è inaspettato e commovente: la canzone è Something on Your Mind, la stessa usata anche in un episodio della prima stagione di The Umbrella Academy (2019). Take Me, un’altra traccia tratta da In My Own Time, il suo secondo album del 1971, è nella colonna sonora della serie di fantascienza The Loop (2020).
Perché Karen Dalton non è diventata famosa quando era viva?, si chiede la regista svedese Charlotta Hayes in The Afterlife of Karen Dalton, film in lavorazione in uscita nel 2022, il cui titolo promette di raccontare come la grande eredità della Song Stylist venuta dall’Oklahoma stia finalmente dando i suoi frutti.

L’EREDITÀ
Sul versante discografico le cose sono in movimento già dalla fine degli anni Novanta, quando l’etichetta francese Megaphone ristampò il primo album, It’s So Hard to Tell Who’s Going to Love You the Best. Le riedizioni si sono intensificate nei Duemila, grazie alla Light in the Attic Records che rimise in circolazione In My Own Time, e si sono arricchite con registrazioni casalinghe e live. L’ultima uscita è lo splendido cofanetto Recording is the Trip – The Karen Dalton Archives (sempre da Megaphone), contenente in vinile e cd il doppio album dal vivo del 1962 Cotton Eyed Joe rimasterizzato, le registrazioni casalinghe Green Rocky Road del 1963, il download di tredici inediti tra cui la versione di God Bless the Child e un booklet con foto dagli archivi personali, spartiti, liriche (Dalton era una meticolosa collezionista di canzoni folk che annotava scrupolosamente, oltre che diarista e autrice di poesie). Per i libri, bisogna di nuovo guardare alla Francia: la prima e unica biografia l’ha scritta Pierre Lemarchand e si intitola Karen Dalton, le souvenir des montagnes (Camion Blanc, 2016), a cui si affianca la bio a fumetti di Cédric Rassat e Ana Rousse, Karen Dalton-Jeunesse d’une femme libre, de Greenwich Village à Woodstock (Sarbacane, 2017).
Un’altra importante novità riguarda il versante cinematografico. Dopo aver fatto il tour di numerosi festival negli ultimi due anni e aver vinto lo scorso gennaio il Dock of the Bay di San Sebastián, rassegna dedicata ai documentari musicali, è ora disponibile on demand su Vimeo e Dafilms A Bright Light, Karen and the Process, autoproduzione della regista e videoartista svizzera Emmanuelle Antille (il dvd è in vendita su www.cede.ch o scrivendo a rubisfilmsproduction@gmail.com).

FANTASMI
Nel 2012 Antille aveva appena finito il suo primo lungometraggio – un road-trip sul rapporto madre-figlia intitolato Avanti con Hanna Schygulla e Miou-Miou – ed era in cerca di un nuovo progetto sul tema dell’esplorazione del processo creativo. Un amico le propose diversi nomi, tra cui quello di Karen Dalton. Presa dalle sue ricerche, la regista se ne dimenticò, finché un giorno nel 2013, mentre tornava a casa in autobus da Ginevra, dove insegna alla Head (l’università di Belle Arti, Cinema, e Design), dal suo iPhone è partita Sweet Substitute. «Non ricordo neanche come ci fosse finita, probabilmente avevo scaricato la compilation 100 trésors cachés: Chansons rares & indispensables di Les Inrockuptibles. All’improvviso ho sentito la sua voce e sono rimasta folgorata. Tornata a casa ho iniziato a documentarmi e ho trovato solo il filmato di una decina di minuti girato da una troupe francese alla fine degli anni Sessanta, in cui si vede Karen cantare a New York e nel capanno di minatori in Colorado. Guardando quelle immagini ho deciso che volevo vedere di persona quella casetta a Summerville», dice la regista.
La casa purtroppo non esiste più e il piccolo villaggio di minatori oggi è una ghost town. Anche Karen Dalton è un fantasma. Alcune delle immagini più emozionanti del film sono quelle girate nella roulotte dove ha vissuto gli ultimi anni ed è morta il 19 marzo del 1993.
A Bright Light-Karen and the Process è in parte road movie, in parte documentario e soprattutto un omaggio poetico ed empatico, un mix di generi usato dalla regista svizzera per realizzare il suo desiderio: «È il tentativo di dare forma a un fantasma, ma soprattutto di rispondere a una domanda cruciale: quanto sei disposto a sacrificare in nome della creazione? Tutto il film gira intorno a questa domanda che per Karen Dalton è fondamentale: per me lei incarna la passione della creazione. È impressionante quanto tempo sia andata avanti con la sua furia creativa. Per tutta la vita ha lottato per fare musica, perfino quando era molto malata. Fino alla fine cercava occasioni per suonare, aveva preso contatti con un’agenzia di booking, ma forse non aveva più la forza fisica e mentale, e soprattutto rifiutava i compromessi. Era in conflitto con la sua creatività, in lotta con sé stessa, ma voleva condividere la sua musica. Il mio obiettivo era interrogarmi sul processo creativo attraverso la sua visione e la sua voce, e indagare quanto si può continuare a vivere per l’arte. Nel documentario scorrono due idee parallele: la questione personale della ricerca creativa e la vita di Karen che quella ricerca ha incarnato».
Il film esiste in due versioni: un documentario biografico di cinquanta minuti, A Bright Light, e il lungometraggio Karen and The Process focalizzato, come indica il titolo, sul processo artistico.

IN VIAGGIO
Per due mesi, insieme a due colleghe videomaker, Emmanuelle Antille ha attraversato gli Stati Uniti in auto sulle orme di Karen Dalton, dal Colorado a Woodstock, incontrando i suoi amici, come Peter Walker e Joe Loop, e ricostruendo i suoi spostamenti.
«Quando siamo partite per gli Usa, avevamo una sceneggiatura con le interviste, i voice over, i costumi, i prop e le scene di fiction in cui interpreto Karen e costruiamo il suo capanno, attrezzature, tessuti, maschere e perfino dei bengala! Per fare il film ci sono voluti cinque anni, uno per montare le 140 ore di girato».
Le immagini provengono da fonti diverse – HD, Super 8, MiniDV e cellulare – ognuna con una funzione precisa: l’alta definizione per le interviste, il Super 8 e il MiniDV per le riprese oniriche e il cellulare per il diario di bordo. «Volevo ottenere un effetto caleidoscopico con i cambi di stile, per dare l’impressione di una ricerca continua. La qualità diversa delle immagini corrisponde ai vari modi di affrontare la realtà, viaggiare e trasporre la storia di Karen. Dato che di lei esiste solo qualche frammento e io volevo che apparisse nel film, che fosse viva, abbiamo realizzato le mise en scène per incarnare il suo fantasma».
Alla fine, quanto è riuscita ad avvicinarsi a Karen Dalton? «Quel viaggio mi ha dato molto di più di quanto mi aspettassi. Lungo la strada ho incontrato anime gemelle, alcune conversazioni sono state molto intense e mi hanno avvicinato all’animo di Karen. È stata una gioia lavorare a questo progetto: l’aspetto investigativo, gli scambi con i musicisti, un intero paese trasformato in un parco giochi. La mancanza di immagini di Karen ci ha costretto a inventare materiale per trovare un altro modo di raccontare la storia. Come una fiction, ma più intensa grazie agli incontri lungo la strada».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento