Allan Kaprow spiega un happening, 1964

 

Negli anni ottanta, in un momento di riflessione e revisione del proprio lavoro, Allan Kaprow (1927-2006) si era interrogato sulle possibilità di riproposizione dei propri happening. Difficile, come è stato notato, replicare un’azione collettiva fuori contesto, se non a patto di rinunciare alla tensione ideologica originaria, per preservarne l’aspetto ludico. Per questa ragione Kaprow era arrivato alla conclusione che i suoi interventi potessero essere reinventati, più che replicati, mantenendo lo spirito originario e al contempo adattandolo a nuove situazioni: l’importante era conservare l’aspetto impermanente e immediato.
È quanto è stato pensato in occasione di Allan Kaprow I will always be a painter – of sorts, la mostra curata da Sergio Risaliti e Barry Rosen (con la collaborazione dell’Allan Kaprow Estate e di Hauser & Wirth), visitabile fino al 5 ottobre al Museo Novecento di Firenze, finalmente di nuovo aperto al pubblico dopo la parentesi di quarantena. Confermando il ruolo cruciale del Museo come polo di sperimentazione dell’arte contemporanea nel capoluogo toscano, per l’occasione sono stati invitati a reinventare il famoso happening Fluids (1967) un gruppo di giovani durante la loro residenza d’artista presso la fiorentina Manifattura Tabacchi. A Davide D’Amelio, Anna Dormio, Bekhbaatar Enkthur, Esma Iller, Giulia Poppi e Negar Sh, dunque, è stato chiesto di declinare all’interno della realtà museale quella situazione durante la quale Kaprow aveva realizzato, insieme a un gruppo di volontari, una serie di grandi parallelepipedi con blocchi di ghiaccio. A Firenze questo diventa Fold Fluid: non più freddi e trasparenti moduli congelati, bensì «mattoni» di carta che i visitatori sono invitati a costruire secondo istruzioni date in mostra, come un origami, per andare a costruire un parallelepipedo delle stesse misure di quello originariamente pensato dall’artista, e che causa Covid-19 somiglia ora a un palazzo non finito che attende nuovi incontri.
Nel loggiato del primo piano, invece, Dania Menafra ha ripensato Words, l’azione proposta per la prima volta nel 1962 alla Smolin Gallery di New York, trasformandola in WOM! (Word of Mouth): opera aperta costituita da grandi fogli stampati che il visitatore può comporre a parete creando inedite connessioni fra parole. «Un Happening», aveva dichiarato l’artista nel 1966, «è un insieme di eventi eseguiti o percepiti in più di un tempo o un luogo. I suoi ambienti materiali possono essere costruiti, ripresi direttamente da ciò che è disponibile o leggermente alterati; così come le sue attività possono essere inventate o banali». Il punto nodale, insomma, sta nell’attivare la partecipazione collettiva a un evento, che si rivela un principio in sintonia col museo diretto da Risaliti, come questa mostra vuol dimostrare, chiamando il pubblico a ridare vita a riti e procedimenti riempiendoli di nuovi significati.
Ma il vero cuore della mostra è rappresentata dall’opera pittorica di Kaprow tra fine anni quaranta e fine dei Cinquanta, per la prima volta presentata al pubblico italiano in una selezione di venti dipinti e venti disegni, disposti in un percorso a ritroso che, partendo da una breve parentesi di ritorno al disegno negli anni settanta, progressivamente accompagna alle origini, intorno al 1948. La partenza è all’insegna di quella convivenza di istanze fauve e cubiste di ascendenza francese tipica della pittura dell’immediato dopoguerra, alla ricerca di una via alla modernità tramite la conciliazione fra i due assi portanti delle avanguardie storiche. Sono gli stessi anni in cui New York comincia a insidiare il ruolo di Parigi come capitale dell’arte moderna, ma stando ai dipinti di Kaprow ventunenne, quando studia pittura con Hans Hofmann e segue le lezioni di storia dell’arte di Meyer Shapiro alla Columbia University, sembrerebbe che sia proprio il modello francese a fare da guida in certe nature morte tradotte in spessi contorni lineari, quasi un melodico contrappunto ornamentale in grigi matissiani e cromaticamente intensi.
Un marchio europeo rimarrà sempre come basso continuo della sua pittura, e non tanto quello della tesi su Piet Mondrian discussa appunto con Shapiro, quanto quello di una linea espressionista, di una sintesi di disegno e colore che appiattisce le forme con le asprezze di una xilografia dipinta e il timbro acceso e fiammante, che per un istante intorno al 1952 si accorda alla polifonia cromatica del primo Kandinskij, e la accompagna verso una conduzione del quadro libera e selvaggia, fra tinte piatte di rabbiosa restituzione plastica e campiture larghe e abbaglianti. I suoi nudi in un interno sono macchie di colore che bucano i confini della composizione e si ritagliano con tratti violenti sullo sfondo. Del resto, i disegni coevi a questi dipinti hanno abolito il chiaroscuro in favore di un tratto largo e insistito, slabbrato: eppure quel contorno che chiude le forme ha un rilievo volumetrico che non ha bisogno di ulteriori interventi, perché basta la sola linea a stabilire l’ingombro della figura nello spazio.
Nonostante alcune vedute urbane e portuali, infatti, il tema degli interni è prevalente: dai nudi femminili in pose sgraziate e persino volgari al tema dell’artista nello studio, fino a gruppi di figure paratatticamente disposte entro una campitura che fa da piano di appoggio e piano di fondo, il mondo di Kaprow se la vede con una realtà vicina. Pur tenendo un occhio a De Kooning, il cuore di Kaprow pittore sembra non volersi staccare da Matisse, che pure aveva avuto un ruolo centrale nella teoria della pittura di campitura larga e astraente, un po’ come in Richard Diebenkorn negli anni della partecipazione a The New Image of Man, la grande mostra del 1959 organizzata da Peter Seltz al Moma.
Pollock, però, gli aveva fatto capire che la pittura d’azione poteva aprire a un’altra dimensione, intorno a cui ruota un’importante saggio di Kaprow del 1958 sull’eredità spirituale pollockiana. Vi ritornerà poi dieci anni più tardi, in un’intervista pubblicata da Michale Kirby nel 1968, dichiarando che in quel tempo aveva messo a punto una sorta di action-collage mescolando materiali eterogenei e frammenti di vecchi dipinti, da cui presto si sarebbe staccato per approdare all’environment. Da lì in poi, però, abbandonerà la pittura, tornandovi soltanto, brevemente, quando nel 1978 gli studenti delll’Università della California a San Diego lo inviteranno a tenere una serie di lezioni sul disegno. Nel realizzare un ciclo di fogli monocromi, disegnando assieme a loro, come ricorda la moglie Coryl Crane Kaprow, egli invitò i giovani laureati a tracciare curve semplici e linee rette, e, come in un rituale, a concentrarsi sull’atteggiamento corporeo necessario a ottenere una soluzione tanto elementare quanto armonica, muovendo il carbone sul foglio alla ricerca della rivelazione messianica. Ne nacque una serie di foglie minimali, fondati sull’equilibrio di forme elementari sul piano entro un clima notturno. «A poco a poco» scrive la vedova dell’artista, «si accumulava una patina che faceva emergere la linea, mentre la debole ombra dei segni precedenti permaneva. I segni stessi diventavano più sicuri ed espressivi mano a mano che il corpo si faceva più rilassato nei movimenti. La profondità del respiro svuota la mente e libera il movimento, sensibilizzando e vivificando il tratto».