«Il silenzio non è una negazione ma un inizio», scrive Michele Porzio nel bel saggio di catalogo alla mostra Kandinsky – Cage Musica e spirituale nell’arte (Reggio Emila, Palazzo Magnani, sino al 18 marzo, catalogo Skira). Il saggio in questione è quello dedicato a John Cage. Siamo nella residenza che fu di Luigi Magnani, illustre musicologo e uomo di gusti finissimi. Nelle ultime sale di una mostra curiosa che si snoda in spazi un po’ labirintici e oppressi dai resti di un disgraziatissimo allestimento precedente, si incontra il profeta che fa ricominciare tutto da capo. Dopo che ci sono passate sotto gli occhi le delicate risultanze visive di tanti artisti che nel corso del secolo scorso hanno inseguito con i colori e con le linee l’immaterialità della musica, arriva chi, con la disinvoltura propria del profeta, azzera tutto. Si riparte dal silenzio. O meglio da quel rumore di fondo della vita che noi pensiamo sia silenzio.
L’episodio che riguarda questa «scoperta» da parte di John Cage è di quelli che fanno parte di un’aneddotica da antologia, ma merita di essere riproposto: «Dopo essere andato a Boston mi recai in una camera anecoica dell’università di Harvard. Tutti quelli che mi conoscono sanno questa storia. La ripeto continuamente. Comunque, in quella stanza silenziosa udii due suoni, uno alto e uno basso. Così domandai al tecnico di servizio perché, se la stanza era tanto a prova di suono, avevo udito due suoni. “Me li descriva”, disse. Io lo feci. Egli rispose: “Il suono alto era il suo sistema nervoso in funzione, quello basso il suo sangue in circolazione”». Cage così concluse: «Dunque, non esiste una cosa chiamata silenzio. Accade sempre qualcosa che produce suono».
Il velario bianco di Rauschenberg
Ci vuole la calma zen di Cage per raggiungere un ascolto di questo tipo. Quando in mostra entriamo in una camera anecoica, quella dimensione ci rimbalza nello sguardo solo grazie a un’opera, esposta come un’icona, di Robert Rauschenberg, grande amico e compagno di avventure radicali: sulla sua immagine Rauschenberg fa calare un velario bianco che la nasconde in gran parte e che per noi è una visualizzazione del silenzio e della sua «consistenza». Quella rivelazione a Harvard aveva poi originato la celebre composizione 4’ 33”: tre tempi di pianoforte muto, durante i quali, come scrive sempre Porzio, «ci accorgiamo che l’attesa è già accadimento, e il silenzio, con nostra meraviglia, si rivela la zona più abitata di suoni della musica».
Con Cage assistiamo poi a un curioso ribaltamento. La grafia sottile dei suoi spartiti arriva a comporre trame leggere, con una sensibilità formale involontaria ma alla fine ineccepibile; stessa cosa accade per le sue copertine, regolate da corpi geometrici in rapporti aurei. In sostanza, il silenzio della musica lascia emergere, sulla carta, dei segni sorgivi. Dunque l’inseguimento della pittura ai suoni, narrato e documentato nel percorso della mostra curata da Martina Mazzotta, alla fine si traduce in un esito imprevisto: i suoni tacciono e forme visive rinascono dalle mani di questo amanuense del ventesimo secolo, che non a caso scrive a mano, con grande disciplina calligrafica, le sue istruzioni. Sono forme per certo versi affini al redde rationem del minimalismo, ma capaci di intercettare il rumore di fondo della vita (bellissime le serie dei Seven Haiku e di Music for carillon). L’errore, purtroppo non nuovo, è quello di trattare queste pagine di Cage alla stregua di documenti e di esporle quindi senza ritmo e senza il dovuto respiro. Invece sono immagini delicate come sussurri, che hanno bisogno di pause e di spazio.
Come si sarà capito, Cage suona un po’ a parte in questa mostra. Anche per un motivo di fondo, che condivide, quasi da fratello d’Oltreoceano, con Joseph Beuys: per lui la musica e in generale ogni espressione artistica smette di essere cassa di risonanza dell’io (o meglio, dell’ego ipertrofico di tanto Novecento, avanguardie comprese) e comporta quindi un decentramento della figura umana rispetto al mondo che la circonda. La passione per la botanica, condivisa non casualmente con Beuys, è sintomo di questo decentramento: ne è testimonianza celebre la comparsata nel febbraio 1959 a Lascia o Raddoppia condotto da Mike Bongiorno, in quanto super esperto di funghi. Cage arrivò alla fine del quiz, vincendo i cinque milioni di cui aveva bisogno per il suo viaggio di ritorno in America, ed ebbe anche modo, con quella sua aria mite, di sconcertare e affascinare il pubblico suonando uno dei suoi motivi per «piano preparato» (dove lo strumento era stato modificato inserendo vari oggetti tra le corde). Il suo è un creare come se «scrivesse sull’acqua»: e capiamo così il meraviglioso e monumentale omaggio liquido che Gerhard Richter ha voluto tributargli con l’installazione-stanza conservata alla Tate Modern di Londra.
Tornando sui nostri passi lungo il percorso della mostra si scopre come in Cage diventi effettivo quello che in tutti gli altri resta su un piano generosamente intenzionale: l’idea di una fusione delle arti, di fare un’unica cosa del vedere e del sentire. È emblematico, a questo proposito, il gioco di rimbalzo in occasione della rappresentazione dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij nel 1928 a Dessau. Il musicista russo aveva composto cinquant’anni prima la sua suite per pianoforte ispirato dalla mostra di Viktor Hartmann: il linguaggio sonoro era stato usato dunque per narrare e restituire le sensazioni suscitate dai quadri. Per la rappresentazione di Dessau Kandinsky aveva realizzato dei disegni in diretta, mettendosi in sintonia con la partitura musicale, riportando le proprie emozioni sulla superficie dipinta. Gli acquarelli sarebbero stati poi tradotti in elementi dell’allestimento scenico. Era un’esperienza della tanto auspicata «sinestesia», dove però i generi restavano tutti al loro posto, in armonia, facendosi da supporto l’uno con l’altro. Dai quadri, attraverso la musica, si torna ai quadri, in una circolarità teoricamente infinita, che non arriva mai alla fusione.
La fusione era stato invece il grande sogno cullato sin da quel giorno di gennaio 1911 in cui, insieme gli amici del Blaue Reiter, Kandinsky ascoltò per la prima volta alcuni pezzi di Arnold Schönberg. Restò affascinato da come le note poco alla volta si allontanassero da un centro tonale, sperimentando una libertà del tutto parallela a quella del suo primo Acquarello astratto datato 1910. «L’arte appartiene all’inconscio», aveva risposto Schönberg alla lettera entusiasta inviatagli da Kandinsky. «Bisogna esprimere se stessi, non il proprio sapere o la propria abilità». Schönberg stesso (che fu il maestro convinto e intransigente di John Cage) è presente in mostra con una serie di intensissimi dipinti a olio su cartone, dove la pittura come la musica è innanzitutto un’esperienze psichica. Tuttavia quell’assoluta libertà dalle forme avrebbe presto chiesto una organizzazione in teorie; accadde per Schönberg con la dodecafonia e accadde anche per Kandinsky con la messa a punto di una razionalizzazione compositiva del quadro. A volte il sogno trasale, come accade nella piccola, bellissima Risonanza multicolore del 1928, proveniente dal Pompidou. Ma per il resto prevale la necessità di un controllo freddo, figlio anche del magistero della Bauhaus.
L’utopia sotto il Monte Verità
L’utopia continua a vivere sotto il Monte Verità con lo slancio ingenuo di Marianne Werefkin e soprattutto nelle ben più profonde vibrazioni fatte risuonare da Paul Klee. Con il passaggio al dopoguerra si assiste invece a tutta un’altra musica. Gli echi interiori e i loro risvolti spirituali lasciano il posto a un gusto per l’esteriorità del suono. Un suono che diventa jazzistico e fragorosamente materico nella bellissima serie di opere di De Staël, tutte provenienti dalla raccolta di Mario Garbarino, o delicato e sussurrato come un alito di vento nelle sculture di Melotti (l’uno e l’altro purtroppo molto sacrificati dall’allestimento). Come emblema di questa transizione ci sarebbe voluto un prestito impossibile, il Broadway Boogie Woogie di Piet Mondrian, datato 1943, uno dei quadri del secolo: la griglia calibratissima della tela qui era diventata il diagramma di una musica nuova, che parla di corpi e di libertà.