Aveva già fatto parlare di sé, ben prima del suo debutto l’inverno scorso a Parigi, perché l’occasione avrebbe messo insieme il genio di Robert Lepage, maestro riconosciuto della scena mondiale attuale e ventura, sperimentata nella sua Caserne di Quebec, con gli attori della parigina Cartoucherie solitamente diretti e curati da Ariane Mnouchkine. Lo spettacolo oltretutto, al di là della comunanza linguistica francofona tra regista e troupe, affrontava un tema «scabroso» quanto di impegno umano e civile: il trattamento cui, fino ad anni recenti (gli ultimi del novecento) sono stati sottoposti i nativi di quell’ultima porzione del continente nordamericano. Una sorpresa anche sconvolgente per noi europei che del Canada apprezziamo per molti versi la modernità di diritto e civiltà.

QUALCHE DIFFICOLTÀ, di metodo e comprensione, può esserci stata, conoscendo l’abituale rigore metodologico di Lepage, e la generosità assoluta e quasi senza freno della equipe francese (a partire dal lontano 1789). Ma oggi, a vedere lo spettacolo al Politeama nell’ambito del Napoli teatro festival, Kanatà (dall’antico nome della regione poi divenuto nome dell’intera nazione) si rivela grandioso e lancinante, assai contemporaneo nel linguaggio scenico quanto rigoroso nella prospettiva morale. Una fonte di informazioni preziose e di profonde emozioni, assai in linea con diversi altri lavori di Lepage, da sempre maestro nell’avvinghiare lo spettatore con racconti di impressionante quotidianità, dentro i quali prendono poi forma, senza forzature ma anzi con assoluta naturalezza drammaturgica, i grandi temi del pensiero e dell’organizzazione sociale, i rapporti tra gli individui e i corrispondenti rapporti tra le classi, le etnie, e perfino gli stati.

PERCHÉ la realtà, nel mondo scenico di Lepage, soggiace e appare nelle mille prospettive che la tecnologia ci aiuta oggi a separare, moltiplicare, rovesciare, pur lasciando fluire un racconto assolutamente unitario, che come un puzzle già contiene le molte possibilità narrative che andranno poi a prendere corpo. Così Kanatà nasce dall’idea di una mostra sull’arte nativa delle popolazioni autoctone della Columbia occidentale, dove conosciamo una distinta restauratrice del museo che quelle testimonianze visive conserva, e che si rivela gelosa custode della integrità e della non strumentalizzazione di quelle testimonianze artistiche. Subito dopo, con rapido cambio di luci e disposizione spaziale, siamo già nel loft con vista sulla skyline di Vancouver, che due giovani aspiranti artisti (lui recita, lei dipinge) affittano per viverci e crescerci, benché si affacci su una strada di loschi e avventurosi traffici. Ed è una delle giovani prostitute che lì si guadagnano i pochi dollari per una dose, a mettere in salvo la pittrice aggredita e derubata da un balordo, tanto che le due donne diventeranno amiche. Per poi finire, la ragazza nativa, vittima del killer seriale e suprematista che ne uccise (nelle cronache reali) ben 49 per disprezzo razziale. Ma le storie che nascono e si intrecciano sono molte (tornerà in campo anche restauratrice del museo), e non sarebbe giusto raccontarle neppure in elenco, perché costituiscono per ora solo la prima parte di quella che viene annunciata come una trilogia.

UN’OPERA monumentale dunque, che pure, fuori da ogni gigantismo spettacolare ma attenendosi in continuo al tenere avvinto e partecipe lo spettatore, attraversa territori delicati e brucianti, ma tenuti stretti quasi a ri-costruire non solo un mondo o un intreccio, ma l’intero diagramma di un paese composito e complesso come il Canada. O qualsiasi altro, dove il teatro sia in grado di assolvere a una così forte funzione cultrale e politica. Una visione da non perdere, lasciandosi andare a quella narrazione da cui si uscirà per molti versi arricchiti.