Il distretto afghano di Pachir Aw Agam, nella provincia orientale di Nangarhar al confine con il Pakistan, non ha una bella fama. Comprende le grotte di Tora Bora, antico rifugio talebano sottoposto a pesantissimi bombardamenti.

Ieri è tornato sotto i riflettori della cronaca per l’ennesimo fatto di sangue che continua a segnare la vita quotidiana degli afghani. Un kamikaze, che secondo alcune testimonianze sarebbe stato un minorenne, si fa esplodere nelle prime ore di venerdì durante un matrimonio, l’investimento più importante per ogni uomo o donna afghani.

La scelta è meticolosa: è il matrimonio del nipote di Malak Tor, comandante locale di una milizia pro governativa. Il giovanissimo martire si fa esplodere nel momento in cui sta arrivando il rinfresco, c’è già molta gente. Lo sposo muore e con lui almeno altre otto persone. I feriti sono oltre una dozzina. In quella provincia di confine povera e remota dove le strade asfaltate si perdono in tratturi polverosi, la declinazione afghano-pachistana dello Stato islamico ha le sue roccaforti.

La provincia di Nangarhar è il centro degli scontri tra gli affiliati del neo califfato e il governo sostenuto dalla Nato ma è anche il cuore della battaglia tra talebani e adepti – locali e stranieri – del mantra islamista di al-Baghdadi. La guerriglia in turbante, impegnata a Doha nei negoziati di pace con gli americani da ormai un anno, fa subito sapere che con la strage non c’entra nulla.

E infatti l’attentato arriva a un pugno di giorni dalla firma su un documento congiunto, siglato a Doha tra Talebani ed esponenti della società civile afghana, in cui si sottoscrive un impegno a cercare di ridurre a zero le vittime civili di una guerra il cui pallottoliere è sempre in movimento.

Che lo Stato islamico della provincia del Khorasan volesse proprio reagire a quel documento è una possibilità. L’altra è, più semplicemente, che la cosa fosse preparata da tempo per punire chi sta contro di loro.

Quale che ne fosse il motivo, lo Stato islamico e le formazioni talebane o ex talebane (molti espulsi dal movimento o critici verso le trattative sono passati all’Isis) si contano tra gli scogli sulla rotta di una pace incerta che si sta negoziando a Doha. I Talebani si sono impegnati, in cambio del ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan, a far sì che il territorio all’ombra dell’Hindukush non sia un porto sicuro per il terrorismo jihadista che ai Talebani, fortemente nazionalisti, non è per altro mai piaciuto.

Ma proprio questa impossibilità di garantire che l’Afghanistan non rappresenti più un safe haven per terroristi è uno dei motivi che potrebbe ritardare la partenza degli americani o consentire loro maggiori ambiti di trattativa.

Per ora si negozia su un calendario incerto del ritiro dei soldati stranieri e su altri due scogli ancora da doppiare. Una tregua che faccia tacere le armi e l’inizio di un dialogo intra-afghano. Ci si avvicina a passi felpati e attenti a non commetterne di falsi.

Proprio ieri Zalmay Khalilzad, il negoziatore Usa, era a Pechino dove si è incontrato con cinesi, russi e pachistani. Tutti d’accordo, dicono fonti di stampa, sul fatto che la guerriglia debba incontrarsi con il governo ma la strada sembra ancora in salita. Segnali positivi però ce ne sono come l’incontro a Doha, qualche giorno fa, tra una delegazione della guerriglia e una sessantina di afghani. tra cui dieci donne e persino politici di Kabul, ancorché a titolo personale e non come emissari del governo.

Ma tra le tante salite e discese, speranze e trattative, la variabile Isis gioca la sua parte. A spese di tutti, iniziando dai civili che – scrive Claudio Bertolotti nel suo ultimo libro Dentro la guerra più lunga – sono stati oltre 30mila solo negli ultimi 10 anni. Un conto che per la Brown University – sommandovi soldati, umanitari, giornalisti, guerriglieri e altri – supera, dal 2001, i 147mila morti.