Conquistando la nomina alla vice-presidenza degli Stati Uniti dopo il successo elettorale del partito democratico, al quale ha contribuito con una ricca dote di suffragi, Kamala Harris ha infranto il soffitto di cristallo che, in 244 anni di storia della nazione, aveva finora impedito a una donna l’accesso alle più alte cariche politiche del paese.

LO HA INFRANTO abbattendo le più robuste delle barriere invisibili sottese alla metafora del glass ceiling: le discriminazioni di genere e razziali.

Prima donna vice-presidente, prima persona di colore al secondo posto di comando dopo Joe Biden. Sono la prima ma non sarò l’ultima, ha detto lanciando un messaggio alle bambine americane, dopo aver ringraziato la madre Shyamala, immigrata indiana e attivista per i diritti civili, e le generazioni di donne – nere, asiatiche, bianche, latine e native – che hanno spianato la strada alla sua vittoria.

A ragione le ha volute richiamare, sottolineando con quel ringraziamento sia che le conquiste delle donne s’inseriscono in una lunga tradizione collettiva, sia che le loro battaglie non le hanno mai vinte da sole.

Lo conferma la conquista del diritto di voto in tutti gli Stati dell’Unione, di cui quest’anno si celebra il centenario, ottenuto nel 1920 sull’onda del movimento delle suffragiste fondato nel Regno Unito nel 1869, preceduto a sua volta dai Cahier de Doléances des femmes, prima richiesta formale di riconoscimento dei diritti delle donne presentati nel 1789 all’Assemblea Rivoluzionaria francese, e dalla nascita di circoli femminili in lotta per i diritti politici e civili; accompagnato, o seguito, dal fiorire di analoghe associazioni e movimenti in altri paesi: Nuova Zelanda, Finlandia, Norvegia, Germania, Francia, Svizzera, Wyoming, primo Stato a introdurre negli Stati Uniti, nello stesso 1869, un parziale suffragio femminile.

La storia più recente racconta di altri squarci aperti nel glass ceiling della politica statunitense, quasi a segnare la retta via con paletti piantati lungo il cammino da altre compagne di viaggio.

Frances Perkins
Frances Perkins

FRANCES PERKINS, riformatrice sociale attiva nello Women’s City Club di New York fondato nel 1915 per sostenere il suffragio femminile e un ruolo più incisivo delle donne nella vita pubblica, nel 1933 fu la prima donna a entrare, in qualità di segretario al Lavoro, nel cabinet nella neonata amministrazione Roosevelt. Nel pieno della Grande Depressione, collaborò con la first lady al progetto di costruire un New Deal coniugato al femminile.

Ne fecero parte gli «She, She, She Camps», corrispettivo dei Civilian Conservation Corps istituiti dal governo per offrire a giovani senza lavoro la possibilità di guadagnare qualcosa in opere di manutenzione dell’ambiente.

Perkins sarebbe rimasta la sola donna entrata nel gabinetto fino alla nomina di Oveta Culp Hobby da parte di Dwigth Eisenhower, che nel 1953 le affidò il dipartimento della Salute, dell’Istruzione e del Welfare.

Mary McLeod Bethune
Mary McLeod Bethune

MARY MCLEOD BETHUNE, figlia di schiavi, fu un’educatrice e imprenditrice statunitense, leader dei diritti civili, fondatrice di una scuola, poi università, per studenti afroamericani e del National Council of Negro Women, nonché consulente di Franklin Delano Roosevelt nella campagna del 1932 per le elezioni presidenziali.

Dal 1936 guidò all’interno del governo il cosiddetto «Black Cabinet»: un gruppo formato da quarantacinque afroamericani che ricoprivano posizioni di rilievo negli uffici del gabinetto e nelle agenzie del New Deal. Due anni dopo, Eleanor Roosevelt partecipava alla Southern Conference on Human Welfare convocata a Birmingham, Alabama, da progressisti del Sud per affrontare la questione razziale, profondamente radicata nella regione.

La legge segregazionista dello Stato obbligò i 1.500 delegati, neri e bianchi, a sistemarsi in due settori separati. La first lady piazzò la sua sedia nel corridoio divisorio. A parlare toccava a Bethune. «Mary, vuoi venire al palco?», disse la speaker dell’assemblea. «My name is Mrs. Bethune», rispose. «Signora Bethune: vuole venire al palco?» Per la prima volta una donna nera veniva chiamata in pubblico «Signora». Un altro colpo inferto al soffitto di cristallo della politica americana.

Il 30 dicembre 1945, pochi mesi dopo la morte del marito, Eleanor s’imbarcò sul Queen Elizabeth alla volta di Londra, accettando l’incarico offertole dal nuovo presidente, Harry Truman, che l’aveva nominata rappresentante degli Stati Uniti alla prima Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Eleanor Roosvelt

ERA L’UNICA DONNA nella delegazione, con la quale condivideva la grave responsabilità di dimostrare l’incondizionato appoggio che il governo del suo paese s’impegnava a dare alla nuova organizzazione, affinché potesse diventare lo strumento per salvaguardare la pace internazionale e i diritti di tutti i popoli, dopo gli orrori del nazifascismo e della seconda guerra mondiale.
L’incarico andò avanti fino al 12 dicembre 1948, quando l’Assemblea Generale dell’Onu approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Eleanor Roosevelt ne fu la principale artefice.

VENT’ANNI DOPO, nel 1968, Shirley Chisholm, nata a Brooklyn da padre cubano e madre delle Barbados, insegnante, politica e attivista democratica, infranse ancora una volta il soffitto di cristallo divenendo la prima donna di colore eletta al Congresso, con un seggio alla Camera dei Rappresentanti.

Kamala Harris aveva quattro anni e andava a scuola. L’aspettava un futuro come capo del Dipartimento di Giustizia della California, senatrice statale e poi federale e, infine, vice-presidente della nazione, in carica dal 20 gennaio 2021.