I rifugiati palestinesi di Kafr Bir’rin si sono ripresi, seppur per una sola settimana, il loro villaggio. Non è la prima volta: il campo estivo sulle terre della comunità, spazzata via dalle milizie sioniste nel ’48, è giunto alla sua 24esima edizione.
«Il ritorno dei fiori», lo hanno ribattezzato gli organizzatori, l’associazione Al Awda. Al campo hanno partecipato bambini e adolescenti, dai 2 ai 18 anni. Negli otto giorni di campo, i discendenti degli abitanti di Kafr Bi’rin si sono ritrovati nelle terre, nella piazza della chiesa e intorno a quello che resta delle case della comunità. Tra le rovine, hanno celebrato il diritto che da sei decenni gli viene negato: riappropriarsi della loro storia, tra i racconti degli anziani e le passeggiate tra le macerie. A muovere l’entusiasmo dei rifugiati è l’esperienza vittoriosa e unica del vicino villaggio di Iqrit: i vecchi residenti e i discendenti hanno ottenuto il diritto di tornare.

La storia di Kafr Bi’rin è simile a quella dei 400 villaggi palestinesi distrutti nei giorni della Nakba, la catastrofe del popolo palestinese. Situato a nord, a una manciata di km dal confine con il Libano, fu occupato dalle milizie sioniste nell’ottobre 1948. Il 13 novembre ai 1.050 abitanti fu ordinato di abbandonare tutto. La sequenza si ripete nei racconti dei rifugiati: «Pensavamo di tornare dopo qualche giorno, non rivedemmo più le nostre case». Nel 1953 Tel Aviv ordinò la demolizione del villaggio: l’aviazione bombardò Kafr Bi’rin, radendolo al suolo. Alla distruzione sopravvissero la scuola e la chiesa. Le famiglie di Kafr Bir’in assistettero impotenti alla devastazione da una collina a due chilometri dal villaggio.

Ma il loro impegno non è cessato: si sono rivolti alla Corte Suprema, hanno sepolto i defunti nel cimitero del villaggio, organizzato matrimoni e visite, trasmettendo ai giovani lo stesso desiderio, riprendersi la terra. Nel 1951 la Corte stabilì il diritto dei rifugiati a far ritorno a Kafr Bi’rin. La risposta di Tel Aviv, due anni dopo, fu la distruzione del villaggio e la dichiarazione dell’area «zona militare chiusa». Quarant’anni dopo, nel 1995, il comitato ministeriale creato per discutere la situazione di Iqrit e Kafr Bi’rin decise che ogni rifugiato e due discendenti avevano diritto al possesso di un ottavo di acro per costruire una casa.

Una decisione mai attuata. Ma Kafr Bi’rin non si arrende, consapevole che la questione dei rifugiati è stata dimenticata dalla leadership palestinese. I negoziati in corso hanno lasciato fuori dal tavolo il diritto al ritorno, elemento centrale della lotta per la liberazione. Lo stesso presidente Obama, a fine luglio, dopo il primo incontro a Washington ha trattato la questione. Con una clausola, però: sì al ritorno, ma non nell’attuale Stato di Israele. Torneranno, ma in Cisgiordania.
Difficile immaginare che un conflitto lungo oltre 60 anni si risolva senza tener conto di oltre 7 milioni di profughi. Israele non intende cedere: se permettesse il ritorno nelle terre di origine, subirebbe un terremoto demografico cancellando per sempre il sogno sionista di uno Stato ebraico.