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Kafka, Baudelaire e il movente dei poeti secondo Fiori

Kafka, Baudelaire e il movente dei poeti secondo FioriOdilon Redon, Testa di Orfeo sulla superficie dell’acqua, 1881

Saggistica italiana La Parola come ponte lanciato all’altro: il nuovo libro di saggi di Umberto Fiori si apre con un testo sull’invidia; seguono Orfeo, le Fleurs, infine le Metamorfosi... Il metro di Caino, per Castelvecchi

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 dicembre 2022

«Anni fa, l’amico Gian Mario Villalta mi propose di partecipare a un’iniziativa di Pordenonelegge: alcuni poeti italiani erano invitati a parlare dei sentimenti umani fondamentali, dall’amore all’odio, dall’amicizia alla speranza. Con un certo imbarazzo, Villalta mi chiese se fossi disposto a occuparmi di quello che tutti avevano rifiutato: l’invidia. Con sua sorpresa, accettai senz’altro: su questo tristo sentimento avevo a lungo meditato, e pensavo di avere due o tre cose da dire». Comincia da qui – da questa prospettiva eminentemente etico-morale – l’esplorazione che Umberto Fiori affida al suo ultimo libro di saggi, Il metro di Caino (Castelvecchi, pp. 246, € 25,00). Fiori, classe 1949, poeta fra i più originali della sua generazione, non è nuovo alla scrittura saggistica: andrà ricordato almeno La poesia è un fischio, uscito nel 2007 per Marcos y Marcos, nel quale sotto la lente di ingrandimento finivano diversi autori, da Mallarmé a Montale, da Leopardi a Kafka. Anche in questa nuova raccolta di interventi poesia e letteratura hanno naturalmente un ruolo centrale, ma è significativo che la sezione d’apertura si intitoli senz’altro Morali. In effetti in questa prima parte, oltre ai paragrafi occupati da Vittorini e Calvino, spiccano le pagine dedicate alla Bibbia – ad Abele e Caino, appunto, da cui il titolo dell’intero volume – nonché quelle che, appoggiandosi a Freud, si interrogano intorno a uno dei più noti e importanti precetti cristiani: «Ama il prossimo tuo come te stesso». L’invidia – che può portare anche all’uccisione del fratello – e l’egoismo sono dunque i due perni tenuti al centro da Fiori. Detto altrimenti: sotto esame è, più in generale, il nostro rapporto con il mondo, la possibilità di convivenza fra simili, nonostante i nostri – legittimi, inestirpabili – desideri singolari.
Forse non è un caso che i poeti meglio serviti da Fiori, quelli cui si appuntano in maniera più continua e verticale le sue attenzioni, siano spesso poeti della città, ossia del luogo in cui la modernità tenta di costruire, pur faticosamente, una vita associata, uno stare-in-comune. Ecco, allora, due splendidi saggi dedicati al poeta che meglio di tutti, nel Novecento italiano, ha fatto versi da dentro la città, con le sue apparizioni e i suoi incontri: penso a Vittorio Sereni, che qui è l’oggetto di due interventi, uno rivolto al suo Diario d’Algeria e, soprattutto, uno consacrato a Gli strumenti umani (basterà citare un paio di righe per capire quanto conti, nella fattispecie, la radice cittadina di cui si diceva: «Ne Gli strumenti umani (…) la poesia nasce dalla storia; non da quella archiviata, consegnata ai libri; da una storia vissuta di persona (…), dalla storia che va facendosi tra le macerie del dopoguerra o in mezzo alle vetrine della ‘società dei consumi’ [mio il corsivo]). D’altra parte, ancora più al centro della scena, campeggia un altro vecchio amore di Fiori: il suo Baudelaire. Creatura della fourmillante cité di Parigi, il poeta-flâneur delle Fleurs du mal è protagonista di ben sei letture, ciascuna legata a una lirica precisa. Citiamone una sola: quella di A une passante. Intanto, perché si tratta di un testo che ha segnato tante interpretazioni di Baudelaire, a cominciare da quella di Walter Benjamin. Poi, perché è un ottimo campione per verificare come lavora il Fiori critico: non rinuncia a ferri del mestiere come stilistica, metrica o indagine lessicale (cioè preferendo la Concretezza ai fumi della Teoria); e torna a guardare il testo come fosse la prima volta, con occhio opportunamente ingenuo, ovvero non troppo ingombrato dalle analisi – e magari dalle etichette – che lo hanno preceduto (non escluso lo stesso Benjamin). Infine, la Passante merita perché anche questa scorribanda testuale contiene l’impulso primo del Fiori lettore, il rapporto fra l’individuo e gli altri, sia pure sotto specie di massa o foule baudelairiana (vedi un asserto come questo: «La Passante è (anche) allegoria del Singolo, della sua separatezza. (…) nel fiume senza volto della folla urbana, il poeta ha visto sventolare la bandiera nera dell’Individualità»).
Tutto sommato è a questo nodo che si può far risalire, credo, anche un altro interesse essenziale per Fiori, che attraversa tutto intero il suo discorso critico: l’identità e la sostanza della Parola (e basterebbe, a conforto, rileggere qualche verso del Fiori poeta, magari quelli di Le parole, in Chiarimenti, 1995), con la sua inevitabile funzione di dono e insieme di stigma nei confronti dell’essere umano (penso alle pagine rivolte a un altro faro del libro, cioè Kafka, e in particolare a quelle sulla Metamorfosi); la capacità della Parola di aderire al «movente reale» della scrittura (cito di nuovo dal saggio sereniano), o di entrare in competizione con la musica (si vedano i saggi dedicati a Mallarmé e a Sbarbaro); di lanciare, infine, un ponte verso il lettore, non cedendo insomma a quell’obscurisme che è tanta parte della lirica moderna, già indagato da Fiori nel libro del 2007 (per esempio nelle belle pagine dedicate al mottetto montaliano degli sciacalli). In tal senso, uno dei saggi più rappresentativi è quello dedicato all’archetipo stesso del poeta, a Orfeo: sin dalle Metamorfosi ovidiane, fino allo stesso Mallarmé o a Ungaretti, Orfeo è colui che chiama alla presenza le cose del mondo, attraverso la forza magica della nominazione. Se Orfeo fa da discreto emblema araldico di un poeta che, da sempre, punta tutte le sue carte su chiarezza e comunicatività, Il metro di Caino è allora, nel fondo, anche un grande atto di fiducia nel linguaggio, nelle sue capacità di fare legame, sia pure attraverso lo specchio ambiguamente deformante della poesia. Per un filosofo come Hegel la lirica era senz’altro separazione, distacco dell’io dalla società. Per Fiori, forse, la poesia può condurci invece nella direzione opposta: «Se ci penso la chiave di tutto sono le parole. È nelle parole che io ritrovo – a volte – la gioia che mi spinge verso gli altri».

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