Stavolta c’è davvero mancato poco che la campagna elettorale afghana si trasformasse in un conflitto interno dagli esiti disastrosi. Abdullah Abdullah, il candidato favorito nel ballottaggio del 14 giugno per succedere ad Hamid Karzai, ieri è scampato per un soffio a un duplice attentato. Il suo team era appena uscito dall’Ariana Kabul Hotel, nel quartiere occidentale di Kot-e-Songi, quando intorno alle 12.30 locali due forti esplosioni hanno investito il convoglio diretto all’hotel Intercontinental per l’ennesimo comizio di questi giorni convulsi. Abdullah Abdullah ne è uscito illeso, così come Zalmai Rassoul, l’ex ministro degli Esteri che dopo aver racimolato l’11 per cento dei voti al primo turno, il 5 aprile, ha deciso di sostenere Abdullah e lo accompagna spesso nei suoi comizi. Ancora una volta a rimetterci sono i civili, 6 i morti, tra i quali una delle guardie del corpo di Abdullah. Ventidue i feriti per ora, alcuni dei quali in condizioni gravi.

Lo sfidante di Abdullah, il tecnocrate Ashraf Ghani ha immediatamente condannato l’attentato, così come il presidente uscente Karzai, l’ambasciata degli Usa e Onu. Su Twitter si è fatto vivo perfino il generale Dostum, principale alleato di Ghani, ex signore della guerra con un bel curriculum di omicidi, torture, abuso dei diritti umani. Ha condannato l’episodio come «un attacco alla democrazia», lui che ne sa qualcosa. Gli autori dell’attentato restano ignoti.

Tutti gli occhi sono puntati ovviamente sui Talebani, che però non rivendicano. Se fossero stati loro, si tratterebbe di un cambio di strategia preoccupante: fin qui, «i turbanti neri» hanno cercato di sabotare le elezioni, colpendo gli osservatori, attaccando i centri di voto e minacciando gli elettori. Mai i candidati alla presidenza: se uno di loro rimanesse ucciso, il paese sprofonderebbe nel caos, tra accuse reciproche. Nei prossimi giorni si capirà meglio l’identità degli autori.

Quel che è certo è a 4 giorni dalla fine della campagna elettorale e a una settimana dal voto del 14 giugno, il clima si sta facendo molto teso. I Talebani devono rimediare alla brutta figura del primo turno, quando pur avendo compiuto centinaia di attacchi non sono riusciti a fare il gran botto, quello che chiama l’attenzione dei media internazionali. Le misure di sicurezza qui a Kabul come nel resto del paese si fanno più serrate. E più convulsa la ricerca del consenso e dell’ultimo voto da parte dei candidati.

L’ex funzionario della Banca mondiale e ministro delle Finanze, Ashraf Ghani, è costretto a rincorrere Abdullah, che oltre all’appoggio di Rassoul ha ottenuto, anche se in modo indiretto, quello dell’islamista radicale Sayyaf, che vanta il 7% di voti al primo turno. Ghani invece parte dal 31% dei voti del 5 aprile. Le sta tentando tutte. Ieri era a Kandahar, un bel turbantone in testa, con i leader “tribali”. Nel tardo pomeriggio di giovedì invece ha tenuto – senza turbante e con un impeccabile completo da sartoria – una lunga conferenza stampa al liceo francese di Kabul.

Ha spiegato il suo piano economico per il futuro del paese. Ghani si presenta come l’esperto che sa come integrare l’economia locale nella cornice asiatica e internazionale, rendendola meno dipendente dagli aiuti. Ma la sfida è difficile. In più, c’è una parte della popolazione a cui Ghani non piace. C’è un elettorato, quello conservatore, che va rassicurato. Il sostegno ricevuto da parte di un folto gruppo di religiosi e mujaheddin influenti serve a mostrare che anche lui, nonostante i tanti anni passati all’estero e la moglie libanese-cristiana, è un musulmano doc, un vero afgano. Di fronte a un candidato forte come Abdullah, Ghani ha strizzato l’occhio ai conservatori e ai mujaheddin.

E intanto, i Talebani festeggiano la liberazione dei «Guantanamo five», i cinque barbuti liberati in cambio del sergente americano Bergdahl, in ostaggio per 5 anni nelle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan. I barbuti hanno ragione a festeggiare: lo scambio è un vero successo politico. Da tempo i Talebani cercano di smarcarsi dall’etichetta che li vuole semplici sodali del terrorismo jihadista di matrice qaedista per affermare la propria autonomia. Quella di un gruppo politico che usa anche gli strumenti militari per resistere all’occupazione straniera. Un gruppo che considera le elezioni una farsa imposta dagli stranieri. Ogni mezzo è buono, dicono i barbuti, per mandare all’aria i piani degli infedeli. Qui a Kabul tutti scommettono che i botti non sono finiti.