Abdullah Abdullah sbatte i pugni sul tavolo e manda per aria i piani dell’amministrazione Obama per l’Afghanistan. Ieri l’ex ministro degli Esteri, in corsa contro il tecnocrate Ashraf Ghani per la carica di presidente della Repubblica islamica, ha tenuto un’infuocata conferenza in diretta tv. Toni calmi, ma contenuti incendiari: «Siamo noi i vincitori delle elezioni, se consideriamo il voto reale della popolazione». Il passaggio del leader dei tajiki dell’Alleanza del nord è stato accolto con applausi scroscianti dai sostenitori, ma con molta preoccupazione da Onu e Casa Bianca. Jan Kubis rappresentante della missione Onu in Afghanistan e John Kerry, segretario di Stato Usa, si sono spesi molto per uscire dallo stallo politico che immobilizza il paese da settimane. Riunioni, ricatti economici, telefonate, perfino due visite dello stesso Kerry per convincere Abdullah, nonostante le minacce di di istituire un governo «parallelo».

Sin dai giorni successivi al ballottaggio, Abdullah ha denunciato «frodi su scala industriale» a suo danno, parte di un piano orchestrato dai pashtun Hamid Karzai e Ashraf Ghani con la complicità di pezzi grossi della Commissione elettorale indipendente. Nell’ultimo dei suoi viaggi nel paese centro-asiatico, John Kerry sembrava che avesse ottenuto il consenso di Abdullah e Ghani sul riconteggio – sotto la supervisione delle Nazioni Unite e degli osservatori internazionali – di tutti gli 8.1 milioni di voti del ballottaggio. Soprattutto, era riuscito a fargli firmare un documento politico in cui si impegnavano nella formazione di un governo di unità nazionale, con il potere spartito tra il presidente e la nuova figura del «capo dell’esecutivo» (chief of executive officer). Sulla spartizione si sono accapigliati i due sfidanti. Ashraf Ghani, sapendo di aver vinto, sempre più riluttante a cedere potere. Abdullah Abdullah, convinto di aver perso per le frodi, sempre più esigente. Fino alla rottura di ieri, quando Abdullah è tornato alla carica: «Il voto è stato condizionato dalle frodi», ha ripetuto davanti a centinaia di giornalisti e sostenitori; la Commissione elettorale non è indipendente ma favorisce Ashraf Ghani; più di 1 milione di voti è sospetto; noi abbiamo il sostegno del popolo, Ghani solo quello della Commissione elettorale. Per concludere: «Non accetteremo neanche per un giorno un governo eletto con le frodi»; «i veri vincitori siamo noi».

La mossa di Abdullah manda per aria i piani a stelle e strisce: anticipa e priva di ogni residua legittimità i risultati definitivi che la Commissione elettorale dovrebbe annunciare tra pochi giorni; si fa beffe di Obama, che sabato scorso aveva telefonato ai due sfidanti ricordando il loro impegno per un governo di unità nazionale; ridicolizza il segretario Nato, Anders Fogh Rasmussen, che al vertice in Galles del 5-6 settembre sbandierava una lettera redatta a 4 mani dai due candidati, come segno di ritrovata fiducia reciproca. E ci ricorda gli effetti nefasti dell’ingegneria istituzionale: la figura del «chief of executive officer», proposta da Kerry, ha solo moltiplicato lo scontro. Anche se Abdullah dovesse fare l’ennesima giravolta, tornando sui suoi passi e accettando di fare il «secondo» in un governo presieduto da Ghani, le frizioni continuerebbe a minarne la solidità. Mentre si appresta ad aprire un nuovo capitolo della guerra in Iraq, l’amministrazione Obama non riesce a chiudere quella afghana.