Ha una storia (e una traiettoria artistica) singolare, Jean Pierre Bokondji, in arte Jupiter, che riunisce attorno a sè i fedeli Okwess: Montana, che è anche il batterista degli Staff Benda Bilili (band di paraplegici e senzatetto), Yendé al basso, il chitarrista Eric e Blaise, il cantante.Suo padre, un impiegato d’ambasciata nel trentennio terribile del regime di Mobutu, non vedeva di buon occhio la decisione del figlio di imboccare la strada del musicista. «Era un uomo d’altri tempi, non tollerava che io facessi musica per il pregiudizio che questo fosse un mondo di dissoluti». Scappa di casa a diciassette anni ritrovandosi a vivere per le strade di Kinshasa, dove incontra dei simpatici sbruffoni come i personaggi che popolano i romanzi di Mabanckou, solo un po’ meno raffinati. «All’epoca, gli Staff Benda Bilili non esistevano. Li ho conosciuti tempo dopo, quando Florent de la Tullaye e Renaud Barret sono venuti a Kinshasa a girare il documentario Jupiter’s dance. In quell’occasione abbiamo scoperto questi musicisti che vivevano per strada e abbiamo partecipato al loro primo album, Très très fort, intorno al 2005, con i miei musicisti di Okwess». Quando esce il documentario, nei 2000, Jupiter è ormai completamente immerso nella musica tradizionale congolese e coltiva l’intuizione di volerla coniugare con il groove urbano della sua città. Questi elementi si ritrovano nel disco di debutto, Hotel Univers del 2013, tempi in cui l’allampanato menestrello di Kinshasa osservava: «Non ho bisogno di inseguire la cultura europea. Sta tutto qui: questa cultura, questa ricchezza poco sfruttata, è quello che mi serve per creare il mio suono».

MA IL PERSONAGGIO chiave della storia è la nonna stregona, da cui Jupiter eredita la passione per la musica tradizionale. «Mi ricordo, in particolare, di un ritmo “zebola” durante una seduta di guarigione con mia nonna». Una sorta di psicoterapia comunitaria in un ambiente rurale dove gli spiriti zebola sono presentati come spiriti di defunti o antenati Mongo. «Il mio percorso musicale è stato caratterizzato sin dall’inizio dalla ri-valorizzazione dei ritmi tradizionali che sono la fonte del ritmo di tutta la musica moderna. La mia origine Mongo è una di queste componenti, ma la ricchezza della musica tradizionale è infinita e il lavoro è interminabile». Parole che prendono una loro forma in Na Kozonga, l’ultima fatica per la francese Zamora label, che in lingala vuol dire ritorno. «Questa canzone non ha nulla a che fare con quella di Lokua Kanza (suo connazionale di Kivu, nda). Il titolo proviene da un pezzo dei Nightrain, un ricordo della mia infanzia a Berlino Est. Nella mia versione ha un doppio senso, il ritorno a casa dopo un lungo viaggio, e un lato più trascendentale che ha a che fare con la fine del viaggio della nostra vita terrena in continuità con l’infinito e l’oltre».

È ROCK AFRICANO, anzi congolese, ovvero una speciale mistura di rock, rumba, soukous della capitale degli anni ’40 e ritmi tradizionali del Congo più profondo. «Ho apprezzato molto Papa Wemba, ma non è un mio riferimento. Il mio percorso musicale è caratterizzato dalla ricerca della diversità e non dalla specializzazione in un solo ritmo come la rumba dei miei avi. La musica del Congo più profondo è più tradizionale e più varia». Bakunda Ulu, per esempio, è una fiaba tradizionale che Jupiter&Okwess hanno tradotto in musica con il sontuoso contrappunto vocale di Maiya Sikes, una perfetta sintesi tra le due sponde del Black Atlantic. «Non credo ci sia dell’attivismo, ma una lezione di vita sì. Sia che gli artisti parlino di resilienza o di resistenza, parlano di cose che riguardano tutti. Le persone spesso parlano senza senso, sono gelose e criticano, e coloro che non sono capaci di passare avanti, soffrono. Questa fiaba è una metafora che parla di questo».