Il piano con cui l’Europa a novembre ha tentato di dare una risposta alla più grande crisi migratoria dalla fine della seconda guerra mondiale è fallito. La Commissione di Bruxelles lo ha certificato ieri con le parole del suo presidente Jean-Claude Juncker. Solo che Juncker ha cercato anche di trovare un capro espiatorio per questo fallimento: l’Italia, colpevole di bloccare l’applicazione dell’accordo con la Turchia per frenare l’afflusso dei profughi.

Juncker ha annunciato una sua visita entro il mese di febbraio in Italia visto «lo stato d’animo non dei migliori in Italia in questo momento nei confronti di Bruxelles», facendo capire che sono altri i dossier aperti tra Ue e Italia a ingombrare il tavolo dei negoziati. «Io prendo la mia amarezza e me la metto in saccoccia», ha esordito, come a far capire che il governo italiano dovrebbe fare altrettanto.

La questione migranti non è però secondaria. Il commissario europeo che se ne occupa, il greco Dimitri Avramopoulos due giorni fa, incontrando i membri della Commissione per le libertà civili dell’Europarlamento non ha nascosto che sui rifugiati le cose «vanno sempre peggio». E non soltanto perché nazionalismi e xenofobia si stanno diffondendo a macchia di leopardo nel Vecchio continente. Come è scritto nero su bianco sull’ultimo rapporto della Commissione il piano dei ricollocamenti dei migranti arrivati in Grecia e in Italia – che doveva interessare 160 mila persone – è inchiodato a quota 272. In più la libera circolazione istituita con il trattato di Schengen trova sempre più muri e il trattato stesso rischia di saltare. Eventualità che – Juncker l’ha ribadito con forza ieri – «manderebbe in frantumi l’Unione europea stessa».

Il fatto è che non c’è un accordo sulla ripartizione degli oneri dei diversi stati membri per raggiungere la cifra di 3,3 miliardi di euro previsti dall’accordo con la Turchia per limitare i flussi di migranti entro le sue frontiere. Nella versione iniziale Ankara avrebbe dovuto incassare un primo miliardo di euro nei primi mesi, metà della cifra dalle casse della Commissione, e il resto dai contributi degli stati europei, ad eccezione di Cipro, entro la fine del 2016.

La ripartizione era decisa in rapporto al grandezza del paese e al peso del suo Pil: 534 milioni dalla Germania, 386 milioni dalla Francia, 281 milioni dall’Italia e così via. Ora l’Italia e altri stati vorrebbero che la quota comune fosse almeno raddoppiata ma la proposta, discussa in via informale tra gli ambasciatori a Bruxelles e ieri all’Ecofin tra i ministri, non ha portato a un accordo.

Cosa poi debba fare la Turchia con questi denari è poco chiaro. Il protocollo iniziale è molto generico e prevede soprattutto una collaborazione più stretta con Frontex e con l’Europol per le identificazioni e i respingimenti. In pratica la Turchia – che già ospita 2,2 milioni di rifugiati dalla Siria- nelle ultime ore ha riconosciuto ai siriani la possibilità di avere permessi di lavoro e si è impegnata a combattere le organizzazioni dei trafficanti di esseri umani così come si è impegnata a combattere le milizie dell’Isis.

Il presidente Juncker ieri ha detto di essere in imbarazzo per le difficoltà di accoglienza avanzate dagli stati europei per numeri molto contenuti di profughi della guerra «quando Turchia, Giordania e Libano ne ospitano milioni da anni». Quattro milioni, per l’esattezza. In effetti il direttore dell’Oim, lo statunitense William Lacy Swing, ha fatto notare in questi giorni da Ginevra che l’Ue «è assolutamente in grado di gestire un afflusso di rifugiati pari a quello attuale» e che in ogni caso «finché non migliora la situazione in Siria, dove è in corso una guerra da cinque anni, è ragionevole che il flusso non si riduca».

Il ragionevole e non giovanissimo diplomatico di carriera signor Swing sostiene inoltre che non ha alcun senso colpevolizzare una intera popolazione, pari a circa un milione di rifugiati in Germania, per ciò che è successo a Colonia a Capodanno, fatti che hanno coinvolto sì e no venti persone.

Intanto Angela Merkel – che l’accordo con la Turchia ha fermamente voluto – si appresta ad andare dal suo omologo turco Ahmet Davutoglu già venerdì prossimo, per parlare di migranti più che delle indagini sull’attentato di Sultanahmet.