Era l’inizio della primavera del 1994 quando Kurt Cobain si suicidò con un colpo di fucile, Internet non aveva ancora preso il sopravvento sulle nostre vite, le lettere si scrivevano a mano, le canzoni rabbiose e nichiliste si ascoltavano in solitudine, e l’eroina aveva perso lo scettro ma conservava la sua aura sinistramente fascinosa. All’inizio di quella stessa primavera, Juliet – voce narrante scelta da Juliet Escoria per il suo romanzo La squilibrata (traduzione di Stefano Pirone, Pidgin edizioni, pp. 404, € 16,00) comincia ad avvertire qualcosa di oscuro e maligno che le invade il corpo.

Siamo a Santa Bonita, California del Sud. Juliet è un’adolescente talentuosa che si nutre di poesia, ma come la maggior parte dei suoi coetanei sente «un vuoto di oscurità e malessere». Comincia a infierire sul suo corpo – si taglia, si droga –, passa notti insonni, combatte contro le allucinazioni.
In una lettera confida ai genitori che non riesce a sbarazzarsi del pensiero della morte e questi, disorientati, la fanno visitare da specialisti, che – nell’America ipermedicalizzata – la dichiarano subito bipolare. Il senso di disgregazione accelera le sue fantasie suicide, che si concretizzano in alcuni tentativi e conseguenti ricoveri in istituti psichiatrici, dove incontra ragazzi come lei – pelle cerea, facce gonfie, umore instabile – giovani smarriti le cui personalità vengono smantellate e ammansite da medici indifferenti e interscambiabili.

Juliet la squilibrata, io narrante ma anche alter ego dell’autrice, si sintonizza con Esther Greenwood della Campana di vetro di Sylvia Plath: stessa impossibilità, per queste ragazze interrotte, di comprendersi e definirsi, esprimere sé stesse in una famiglia e una società incapaci di accettare ciò che non è inquadrabile come decoroso e ordinario. A differenza di Plath, però, Escoria entra nel racconto attraverso le «lettere dal futuro» indirizzate alla Juliet «vittima del proprio cervello».

Nel futuro ha trentadue anni, è sposata, vive nel West Virginia, e le pupille che proiettavano «dannazione o nerezza o perfino vacuità» ora suggeriscono solo qualcosa di triste. È proprio nei due piani narrativi e nelle tonalità delle voci – pulsante e viscerale da ragazza, lucida e malinconica da adulta – che il romanzo mostra la sua singolarità; a ciò si aggiungono un immaginario e uno stile che virano dai colori acidi della mente al bianco spettrale delle istituzioni, dall’intensità dell’autoanalisi alla cruda registrazione di diagnosi e trattamenti, da una lingua esuberante e vivida a una più piatta, clinica, la lingua della spersonalizzazione.

Composto da brevi capitoli arricchiti da documenti autentici, Instagram story ante litteram (lettere scritte a mano, biglietti di auguri di pronta guarigione, valutazioni dei pazienti, foto, disegni), La squilibrata appartiene al territorio del romanzo di formazione dove la malattia è un rito di passaggio e la guarigione una ricucitura della personalità andata in pezzi. Tanto che Juliet, riecheggiando Lady Lazarus, può dire: «Ero tornata dal mondo dei morti ormai due volte, ero un miracolo».