È stata la giovane moglie, di fascino spinosetto, di Bianco, forse il titolo migliore, anche perché ambientato nella nativa Polonia, della trilogia Trois Couleurs: Bleu Blanc Rouge di Kieslowski («che fortuna, cominciare subito a lavorare con grandi registi, che poi mi avrebbero ispirato, senza mai copiarli: chi potrebbe rifare Kieslowski?»). Negli anni 80 è stata diretta in La Passion Béatrice, omaggio di Bertrand Tavernier a Riccardo Freda, di cui era stato l’ufficio stampa, e, in tre film, da Jean-Luc Godard, del quale è divenuta Musa temporanea («avevamo lunghe discussioni sul cinema e sull’attore istintivo, che in questa accezione a lui interessava molto»). Poi è venuta la fase americana, con un’altra trilogia – Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight – di Richard Linklater. La Cinémathèque Française l’ha richiamata qualche giorno a Parigi per un bell’omaggio, dove lei è apparsa due volte: alla masterclass dopo la riproposta del suo terzo film, La Comtesse del 2009, e nell’incontro condotto da Jean-François Rauger all’anteprima del suo settimo film di regista e protagonista, My Zoe, del 2019, scongelato solo ora nel post-pandemia. Onnipresente il padre, Albert, che, entusiasta, non ha mancato un solo incontro, pizzicottandola all’uscita (con reazioni divertite: «Mais.. Albert !!!»), la Delpy, vestita come capita, si mostra in disparte, delizioso gatto in agguato: graffianti o carezzevoli, le sue risposte son sempre feline.

Perché, Julie, il suo trapianto in Usa, ormai un quarto di secolo fa? Fuga d’amore? O di cinema?
Al mio esordio ero subito stata battezzata la nuova promessa del cinema francese. Ma non mi sono mai sentita amata in Francia. Ho cercato allora di sfuggire a un sistema in cui non mi sarei sentita a mio agio. Sono perciò partita per gli Stati Uniti, dove ho seguito una scuola di cinema.

Il gran balzo Francia-Usa ha significato il passaggio da attrice a regista: cambio di passo creativo?
Adoro recitare, ma detesto tutto il contorno: provini, pigmalioni, giochi di seduzione, sceneggiature scritte coi piedi. Quante volte ho dovuto riscrivere dialoghi e sceneggiature. La scrittura è essenziale nel cinema. E alla scrittura mi sono appassionata fin da piccola, anche solo per brevi cortometraggi. I dialoghi della trilogia di Linklater, che ci ha uniti in Usa, li ho riscritti da cima a fondo (disegnandone anche gli story-boards), ricevendone una nomination agli Oscar per Before Midnight. Così com’erano, non li sopportavo.

Da lei riscritti, son diventati una trilogia d’amore con Ethan Hawke?
Sì, i tre film sono stati, anche fuori del set, una grande storia d’amore. Un momento magico. Richard ne è stato autore ma anche, cinematograficamente, il testimone: l’osservatore priviligiato d’un amore reale. Al cinema, l’amore fa bene. Non sempre. Ma a volte succede. E è bellissimo.

E alla vita, l’amore, che fa?
Io sono donna, attrice, madre. Non solo questo. Preparo i pasti, faccio la spesa – mio marito pulisce un po’ – pago le tasse. Una settimana all’anno, dato che lui è greco, riesco a obbligarmi a una vacanza, con marito e figlio, su qualche spiaggia greca. Sono iperattiva, lo so. La sera crollo. Ma soffro d’insonnia: alle 4 del mattino, in piedi.

Sempre così?
Ho scritto la mia prima sceneggiatura a 16 anni. A 33, ho diretto il mio primo film. Ho trascorso i quasi 20 anni in mezzo a cercar di dimostrare che non ero una nullità.

Rieccoci al refrain della condizione della donna, già affrontato in «La Comtesse».
Effettivamente, quel film, incasellato nel cinema di genere – il vampirismo (a uso d’eterna giovinezza) – era lastricato di rivendicazioni femminili. È un film contro il maschilismo tossico: quello d’un uomo che vuole distruggerla perché non l’ha potuta possedere, a differenza di quel che ha fatto suo figlio. William Hurt è perfetto nel suo ruolo: ha quacosa di tossico in sé e del «machismo» mega-mega-alfa.

Anche suo padre Albert è un macho alfa?
Tutt’altro, è uno che piange quando guarda i film di Douglas Sirk: piange molto più di me.

Il soggetto di «La Comtesse» le è molto a cuore: perché?
È una storia che mi ha stregato fin da piccola. Ho scritto la sceneggiatura in cinque giorni. È la metafora della mia vita, della difficoltà di essere donna. Ho sempre avuto difficoltà nella vita, mi son dovuta battere perché la gente creda in me: superando o contraddicendo l’immagine angelica che di me ci si fa al primo colpo d’occhio. Detesto acconsentire a quel che gli altri si attendono da me. Mi muovo sempre tra due estremi: oscuro-limpido, gotico-romantico. Come la protagonista di La Comtesse. La storia del film è, nella sostanza, la parabola di una manipolazione: siamo nel Medioevo, ma già nella logica del capitalismo. Mi son rifatta soprattutto a Machiavelli: non per la strategia di guerra e potere, ma del business.

Le sue protagoniste percorrono il loro destino fino all’ultimo stadio. Come la madre di «My Zoe»?
Come i personaggi di François Truffaut: adoro le sue figure femminili, che vivono tutto fino in fondo, che non lasciano mai la presa, costi quel che costi, come in Jules et Jim o in La femme d’à côté. In My Zoe la madre riesce a imporsi contro tutto e contro tutti per far clonare la figlia adorata, appena morta. È la vittoria dell’amore assoluto, impossibile sulle difficoltà della vita e della realtà.

Un’idea dell’amore che le appartiene?
Sa qual è il dramma di Shakespeare che mi ha conquistata fin da bambina ? Giulietta e Romeo, l’apice dell’amore impossibile e distruttivo: la celebrazione dell’aspetto mortifero dell’amore totale. È quello in cui credo, che mi è capitato di vivere: abbastanza spesso. Anche a prima vista.

In «My Zoe» si manifesta l’amore esclusivo d’una madre : che lei esprime alla meraviglia in una sua ninna nanna.
Quando posso, nei film mi occupo anche della musica, terreno creativo considerato per generazioni monopolio maschile. Come il gioco degli scacchi, prova d’intelligenza, ‘dunque’ inaccessibile a noi donne. Questi steccati sollecitano da sempre le mia battaglie personali, anche violente.

Lei, violenta?
Certo, c’è in me una violenza, terragna, animale, che finisce per passare anche nel mio cinema. È il mio côté francese, legato al mio rapporto con il cibo: da piccola, giocavo con i resti del montone. Non c’erano molti giocattoli in casa, ho imparato molto presto a rendermi inventiva.