Un edificio di undici piani, in stile veneziano, costruito per sua volontà, che ha pure un nome: Palazzo Chupi. E tele grandissime, enormi, su cui il colore finisce per abitare, senza parsimonia, insieme a piatti rotti e altri materiali inediti. E poi, un grosso uomo, che privilegia abiti da riposo (tipo pigiami di seta o pantaloni larghi con stoffe che riecheggiano l’Oriente). In scena, ritroviamo i suoi molti figli, diverse compagne e una serie di amici che parlano di lui come un inarrestabile fenomeno, personalità debordante e irrequietissima. Non ci si può sbagliare: è il ritratto di Julian Schnabel, l’artista americano che adora il surf e ha cavalcato le onde del mare, della pittura e del cinema (da Basquiat a Lo scafandro e la farfalla), collegando sempre la vita all’arte.

Alla sua presenza vulcanica, che domina e coinvolge anche una famiglia allargata, Pappi Corsicato ha dedicato un documentario, L’arte viva di Julian Schnabel, in uscita nelle sale il 12 e 13 dicembre (distribuito da Nexo Digital).
Due anni di riprese, molte ricerche negli archivi personali e una serie di testimonianze di friends non comuni come Al Pacino, Jeff Koons, Mary Boone (la gallerista che credette in lui quando entrambi erano giovanissimi ed era cool solo il concettuale mentre Julian proponeva una cascata di pittura pura), Laurie Anderson.

Il ciclone Schnabel deve aver travolto pure Corsicato che ha passato mesi a scartabellare foto di famiglia e vecchi filmati per convincersi, a ragione, che davanti a lui c’era un individuo «senza confini». D’altronde, Julian da piccolo dipingeva sotto il tavolo, sognava di diventare un grande artista ed era già benvoluto da tutti. Come racconta sua madre, «otteneva sempre ciò che voleva». Una attitudine che negli anni ha mantenuto intatta, trascinando gli altri nel suo vortice di fiducia cieca (sicuramente in se stesso). Non dev’essere stato difficile bilanciare nelle sequenze l’esistenza privata con quella pubblica di Schnabel: nonostante le molte ore di girato – circa ottanta – i due ambiti confluiscono con naturalezza uno nell’altro. Il cineasta ha scelto questi continui slittamenti tra i due registri come cifra stilistica del suo film, spezzettando il racconto e restituendolo per frammenti. La temporalità è quella dell’arte e delle emozioni, non ha più niente a che vedere con la dimensione reale, ma almeno con questo accorgimento il rischio agiografia è arginato.