Lo abbiamo conosciuto per un film distribuito nelle sale, Manifesto, in cui Cate Blanchett recita decine di manifesti artistici (futuristi, surrealisti, situazionisti, ecc.) in contesti sempre diversi. Ma in realtà sono oltre vent’anni che Julian Rosefeldt lavora con le immagini in movimento, realizzando opere che assumono quasi sempre forma installativa. L’occasione per esplorare l’universo di questo artista tedesco – nato a Monaco nel 1965 – poco noto nel nostro paese, ci è stata offerta dalla sua residenza (fino a giugno) a Villa Massimo, sede dell’Accademia tedesca di Roma, dove lavora a nuovi progetti.

La prima impressione di fronte all’immaginario di Rosefeldt è, innanzitutto, la ricchezza di dettagli, citazioni e riferimenti iconografici, l’accuratezza con cui costruisce immagini e sequenze, l’eleganza della messa in scena. Le sue opere hanno chiaramente un’impostazione cinematografica, ma finiscono col diventare una complessa riflessione sullo stesso processo del fare cinema, sul set come luogo concreto e metaforico (“luogo comune” ma anche non-luogo) intriso di stereotipi, grazie al quale far convergere narrazioni e situazioni diverse tra loro, attraverso un meccanismo di continue decontestualizzazioni, sovrapposizioni, contaminazioni di generi e spazi, come ad esempio in The Opening, dove la galleria in cui si svolge un vernissage si trasforma in una giostra rotante e, in un’altra versione della medesima installazione, in dispositivo pre-cinematografico.

Quasi tutti i suoi film, “esposti” e non (oltre una ventina), sono costruiti su un’idea straniante di spazio finzionale: del resto Rosefeldt è architetto di formazione, anche se la passione per il cinema ha preso il sopravvento e nasce fin da ragazzino, quando frequentava la cineteca di Monaco diretta dal mitico Enno Patalas, nutrendosi di Buñuel, Godard, Antonioni, ma anche Stan Brakhage.

Il cinema, dicevamo, come infinito serbatoio di cliché da decostruire: American Night (2009) pensato per cinque schermi mette in scena i topoi del western, attraverso alcune sequenze ricorrenti in questo genere (il saloon, il cowboy solitario o quelli accampati che dialogano intorno al falò, la donna in attesa, ecc.), con quei détournement di cui si parlava prima per cui un villaggio western abbandonato diventa improvvisamente, con l’atterraggio di un elicottero, il set di un film bellico; se Deep Gold (2013-2014) è una esplicita rilettura del surrealista L’Age d’or, The Swap (2015) parte da una classica situazione da gangster movie, lo scambio di valigette, per creare – con reiterazioni gestuali reali e non frutto di effetti digitali – bizzarre variazioni sul tema: l’elemento meccanico de-drammatizza la scena e rende comici i personaggi.

Il paesaggio assume spesso un ruolo importante nell’opera di Rosefeldt, da quello selvaggio di Requiem (2007) a quello distopico e post-atomico di In the Land of the Drought (2015-2017), ma è pur vero che il paesaggio culturale e politico è frutto di continue contaminazioni, come quando in una delle sequenze di American Night l’artista fonde la figura del cowboy del western con la dimensione romantica ed esistenziale dei quadri di Caspar David Friedrich. Ma le installazioni dell’artista, spesso, ci conducono dentro una dimensione claustrofobica, come nella Trilogy of Failure (2004-2005), composta da The Soundmaker, Stunned Man e The Perfectionist: protagonisti sono tre uomini che compiono rituali in spazi chiusi, raccontati attraverso una complessa architettura di gesti, suoni e movimenti di macchina.

Il pubblico italiano potrà conoscere il lavoro di Rosefeldt – che attualmente insegna Digital and Time-Based Media presso l’Akademie der Bildenden Künste di Monaco – anche grazie a un paio di mostre romane: il 15 dicembre alla Fondazione Memmo l’artista esporrà 4 cavalli dal vivo (omaggio a Kounellis) bardati con frasi della costituzione italiana, mentre a febbraio una sua opera sarà allestita in un importante museo romano.

Come ti relazioni al mercato dell’arte contemporanea, avendo a che fare con opere ”immateriali”, che solitamente è difficile vendere? Chiunque, tra l’altro, può vedere le tue immagini in movimento on line, senza limitazioni, mentre gli artisti tendono a preservare il lavoro soprattutto quando si tratta di film, quindi facilmente duplicabili.

Ho deciso di mettere tutto in bassa risoluzione sul sito, anche perché succede comunque che le persone filmano le installazioni esposte, quindi tanto vale presentare una documentazione completa delle opere. Tutto ciò non compromette la loro vendita, naturalmente, anche se sono pochi quelli che collezionano opere di moving image, ma sono tutti molto appassionati. I miei lavori li vendo di solito a musei e collezioni private (come la collezione Goetz a Monaco). Di ciascuna opera realizzo sei edizioni su supporto HD, accompagnate da certificato, istruzioni su come installare il lavoro e il permesso di aggiornarlo di pari passo all’evoluzione dei dispositivi tecnologici. Oltre alle sei copie mi riservo per me due prove d’artista, inoltre nel contratto c’è una clausola per cui se il mio master o la copia del collezionista dovessero andare distrutti, possiamo entrambi richiedere un duplicato all’altro.

I tuoi film installati sembrano piuttosto costosi, come trovi i soldi per realizzarli?

Di solito c’è un’istituzione interessata che contribuisce a un quarto del budget, un’altra porzione ce la metto direttamente io e poi trovo altri partner. Resto comunque io il produttore dei miei lavori, poiché ciò mi garantisce totale libertà e controllo sull’opera. Anche le gallerie sono contente, perché non chiedo loro soldi.

Il tuo rapporto con le gallerie?

Vent’anni fa, dopo i primi successi nel campo dell’arte, io e il mio socio con cui lavoravo all’epoca, pensammo di trovarci una galleria. Dopo un paio di anni me ne sono andato, proprio perché non volevo essere dipendente da nessuno, così ho lavorato per ben dieci anni senza intermediari, inoltre non mi sentivo ancora pronto per il mercato e volevo lavorare in tranquillità, senza fare compromessi.

Manifesto ha rappresentato per te l’ingresso nel mondo cinematografico “ufficiale”, come hai vissuto il passaggio a questo nuovo contesto?

Da oltre dieci anni mi chiedevano di fare un lungometraggio, probabilmente perché tutti i miei lavori hanno un’impostazione molto cinematografica, ma mi sono sempre trovato più a mio agio nel contesto artistico. In oltre cento anni di esistenza, il cinema ha inventato solo tre formati: lungometraggio, cortometraggio e documentario. Invece nel mondo dell’arte posso sperimentare attraverso forme e formati molto diversi. Inoltre – anche grazie alla Blanchett – ho potuto introdurre un elemento guerrigliero, un fattore di sabotaggio nel mondo “commerciale” del cinema, attirando un pubblico che non sarebbe mai andato a vedere un’opera del genere in un museo.

E’ nata comunque prima la versione installativa del lungometraggio.

Si, l’installazione su 13 canali l’ho esposta la prima volta all’Australian Center for the Moving Image di Melbourne, anche perché Cate Blanchett è australiana. All’inizio ho cercato i soldi per l’installazione e sono andato anche da un network televisivo in Germania: le due donne responsabili della produzione hanno subito amato l’idea, ma mi hanno chiesto di inventarmi un lungometraggio per giustificare il loro supporto all’installazione. Alla fine si sono aggiunti i soldi di un Film Board, di un festival di arte e anche di alcuni collezionisti: è stato l’unico caso in cui ho tirato dieci edizioni, di cui quattro speciali, che ho venduto a scatola chiusa, ancor prima di realizzare il film.

Come mai lo hai presentato al Sundance?

Lo voleva anche la Berlinale, ma ho optato per il Sundance a condizione che non venisse presentato nella sezione sperimentale, ma nella selezione ufficiale. Il film è stato poi distribuito in tutto il mondo grazie alla Match Factory.

Come è stato accolto il film in generale?

La cosa singolare è che ormai, ad ogni proiezione, viene letto in chiave anti-populista. Sono contento del significato politico che gli spettatori gli hanno attribuito, perché fin dall’inizio mi interessava capire se questi testi – scritti nell’arco fi un secolo – fossero ancora attuali ai giorni nostri.

Non mi sembra comunque che tra il film e l’installazione ci siano differenze sostanziali.

Per me c’è una grande differenza, anche se – in concreto – cambia solo qualche fotogramma. Quando ho dovuto assemblare la versione cinematografica, mi sono accorto che il montaggio consecutivo dei vari episodi sarebbe risultato noioso per lo spettatore, poiché non c’è narrazione e non ci sono neppure dodici micro-narrazioni, ma piuttosto dodici situazioni. Ho capito che per compensare l’assenza di una trama bisognava inventarsi una narrazione visuale con gli effetti che ci offre il cinema. Perciò tutti gli episodi sono cuciti insieme come una sorta di trip ipnotico visuale, che facilita la comprensione di testi complicati. Forse la versione monocanale permetta di concentrarsi maggiormente sul contenuto dei manifesti.

Come va vista secondo te la versione pluricanale di Manifesto?

In Manifesto si può avere due atteggiamenti diversi, concentrandosi di volta in volta sul singolo schermo e nel singolo testo, oppure vedendoli e ascoltandoli nel loro insieme, immergendosi in una dimensione cacofonica. Poi c’è un momento in cui i tredici personaggi rompono “la quarta parete” e si rivolgono allo spettatore con un’unica voce, la voce dell’arte che parla alla società.

Immagino che ora realizzerai altri lungometraggi per la sala, magari più narrativi.

Senza dubbio dopo il successo di Manifesto sarebbe per me più facile farlo, infatti al Sundance in molti mi chiedevano già del mio prossimo progetto. Il problema è che ormai ho sviluppato un certo vocabolario e voglio continuare a lavorare in questa direzione. Se mi imbattessi in un’idea narrativa confacente alla mia forma visuale allora si, ma tutte le idee che mi vengono in mente non vanno bene, raccontati in 90 minuti su un unico schermo.

Contestualmente a un’installazione realizzi, quasi sempre, lavori fotografici.

Tutti noi artisti che lavoriamo con le immagini in movimento speriamo di poter finanziare i progetti con la vendita di fotografie. Ma io non traggo quasi mai semplici still dai miei film, bensì scatto foto durante la lavorazione, in alcuni casi riportando situazioni non presenti nell’opera audiovisiva, come nel caso della serie fotografica Black Cowboy collegata all’installazione American Night.

I primi tuoi lavori multicanale, Detonation Deutchland (1996) e News (1998), firmati insieme a Piero Steinle, sono dei found-footage, ma anche Global Soap (2000-2001), che hai realizzato da solo. Da cosa nasce questa scelta?

Dall’idea di ridare dignità a immagini provenienti dalla televisione e dal web. Inoltre era una reazione allo tsunami visivo proveniente dai media dopo l’invenzione delle tv private e di internet. In Germania eravamo passati in poco tempo da due o tre canali tv a una miriade di network. Ma c’era anche la necessità di lavorare sulla memoria collettiva, di applicare una sorta di pathosformel al video come Warburg ha fatto con il suo Atlante Mnemosyne. Rivedendo a distanza di tempo questi esperimenti, mi sono reso conto che la nostra attitudine a non produrre più nuove immagini perché tutto era già stato fatto, non era un’operazione così originale come pensavo all’epoca. Dopo un paio di anni ho scoperto che dovevo tirare fuori le immagini che erano dentro di me e ho abbandonato il found-footage

Il tuo percorso si può suddividere in tre fasi: la prima di appropriazione di materiali visivi, la seconda di messa in scena di immagini originali e una terza, rappresentata appunto da Manifesto, in cui sei tornato a utilizzare materiali altrui, ma stavolta si tratta di testi. Asylum (2001-2002), la tua prima installazione multicanale di questa seconda fase, è pensata per ben nove schermi e affronta un tema molto attuale, quello dell’immigrazione.

Molti mi chiedono come mai – quasi venti anni fa – mi sono occupato di un soggetto che oggi è onnipresente. A parte che è un tema biblico sempre attuale, aggiungo che è nato anche da un’esperienza personale, poiché mia madre lavora con i bambini rifugiati. Una volta ho incontrato un pakistano venditore di rose a Barcellona e mi sono domandato come mai io, pur pensando di essere una persona aperta e progressista, non avevo alcuna idea sulle sue condizioni di lavoro ed ero pieno di preconcetti. Così ho deciso di fare un lavoro sulla nostra ignoranza giocando sugli stereotipi. Ho creato su nove schermi nove gruppi di persone tutti vestiti allo stesso modo, come se indossassero delle uniformi, che compiono strani rituali inseriti in situazioni anomale.

Prima hai citato American Night, un’altra installazione dove lavori sugli stereotipi, in questo caso quelli del cinema western.

Si, mi interessava indagare come e quanto il mito della frontiera avesse influenzato l’atteggiamento egemonico degli Stati Uniti, mescolando citazioni da classici del genere o tratte da discorsi politici, ma ho inserito anche una frase del rapper 50 Cent. Ho cominciato ad appassionarmi al genere del Western solo dopo aver realizzato il lavoro, che tra l’altro è stato girato non solo a Lanzarote e Tenerife ma anche in Almeria nel villaggio dove Sergio Leone realizzò Per un pugno di dollari.

Nella scena dei cowboy accampati intorno al fuoco, hai inserito digitalmente anche Charles Bronson.

(ride) No, è uno che gli somiglia come una goccia d’acqua, l’ho trovato per caso in Spagna, era uno degli addetti ai cavalli, così – anche se non previsto – ho deciso di inserirlo nella scena del falò.

In tutte le tue messe in scena è fondamentale il livello meta-narrativo o meta-filmico che emerge continuamente.

Da un lato tendo a mostrare il set per sottolineare che tutto in fondo è finzione; nulla ci ciò che viviamo è originale, tutto nasce da ciò che abbiamo visto, sentito, studiato e digerito. Dall’altro lato mi interessa analizzare i metodi consolidati per raccontare una storia, ma anche per creare l’ attenzione del pubblico, divertendomi al tempo stesso a metterli in discussione.

Di solito adatti gli spazi alle installazioni o modifichi le installazioni a seconda degli spazi?

Mi baso su spazi sempre diversi, infatti l’installazione si modifica a seconda della location. Inizialmente il progetto ha un’impostazione spaziale, ma dopo la fase delle riprese diventa soprattutto musicale. Mi spiego meglio: editando il lavoro multicanale è come se scrivessi una partitura per diversi strumenti, bilanciando suoni e pause e vari. Del resto il lavoro del regista, così come quello dell’artista che lavora con le immagini in movimento, è simile al direttore d’orchestra.

Quindi oltre all’architettura è fondamentale per te la componente ritmica.

La musica c’è anche nel visuale, poiché quando componi sia le inquadrature dei singoli schermi sia l’installazione nel suo complesso, c’è molta musica e ritmo. Ma, a differenza del cinema narrativo, in cui l’architettura è scenografica e la musica ha la funzione di anticipare quello che sta per accadere, a me interessa usare queste due forme espressive secondo un metodo piuttosto enigmatico, far succedere qualcosa di bizzarro in un luogo estraneo alla situazione. In Manifesto ci sono location dove non si riesce a capire cosa accade, quindi lavoro per alchimia, per contrasto, stimolando lo spettatore a partecipare maggiormente.

Vista la ricchezza di citazioni e riferimenti che coesistono nel tuo immaginario audiovisivo, non hai il timore che il pubblico colga solo una minima parte di tutto ciò?

Penso che ciascun artista prima di tutto crea – egoisticamente – per veder realizzate le idee che gli passano per la testa. Non mi preoccupa quindi se gli spettatori non vedono tutto ciò che faccio. Ritengo sia fondamentale che ogni opera possa serbare, anche per me, un suo lato segreto, oscuro. Le componenti del mio lavoro che offrono la più grande libertà di interpretazione, sono probabilmente quelle parti che neppure io ho compreso bene.