Dopo la conclusione della Guerra Civile, la narrativa spagnola, per un insieme di ragioni politiche e letterarie, si è mantenuta nel solco di una solida tradizione realista, espressa nella forma del romanzo psicologico e in quella della narrazione sociale, spesso per mano di autori poco conosciuti in Italia. A partire dagli anni Sessanta, non molto diversamente dalle tensioni letterarie europee e latinoamericane, anche la Spagna conobbe una tendenza alla sperimentazione, che agì sulla struttura del racconto e sulla lingua, dando risultati significativi, il più interessante dei quali è probabilmente Tempo di silenzio di Luis Martín Santos, datato 1962: uno dei grandi romanzi europei di quel decennio, scomparso dai cataloghi italiani dopo una prima traduzione nel 1970. È in quel mondo letterario ancora sotto il peso della censura franchista, che esordì Julián Ríos, allora giovane scrittore arrivato dalla Galizia atlantica con un singolare bagaglio di letture cosmopolite, utili al suo lavoro di editor della casa editrice madrilena Fundamentos, il cui catalogo contava alcuni dei più significativi autori delle neoavanguardie europee.

All’inizio degli anni Settanta cominciò con due libri in collaborazione con Octavio Paz, e un monumentale progetto narrativo aperto dal romanzo-fiume Larva. Babel de una noche de San Juan, seguito da una serie di altri titoli, distribuiti su due versanti principali: la radicale esplorazione linguistica, realizzata anche mischiando idiomi diversi, e la contaminazione dei generi, che arrivò a produrre la forma ibrida di un romanzo-saggio, del tutto coerente con la galassia del postmoderno. La scelta di vivere stabilmente fuori dalla Spagna fin da quegli anni, con tappe a Londra, Berlino e Parigi, dove risiede da quasi trent’anni, amplifica il respiro transnazionale e translinguistico di Julián Ríos rendendo i suoi testi non sempre di facile lettura. La prima traduzione di un suo libro, Corteo di ombre Il romanzo di Tamoga (traduzione di Bruno Arpaia,  Safarà, pp. 124 € 16,00) rivela tuttavia una raccolta di narrazioni legate più alla tradizione realista che alla successiva linea sperimentale e trasgressiva. Come lo stesso autore chiarisce nelle pagine iniziali, si tratta di nove episodi narrativi scritti alla fine degli anni Sessanta, ma rimasti inediti fino al 2008, data della prima edizione spagnola.

Chiarita la collocazione temporale del testo, servono almeno altre due precisazioni: il sottotitolo, Romanzo di Tamoga non indica  il luogo, peraltro immaginario, in cui avvengono i fatti, ma piuttosto specifica quello spazio che sarà il soggetto principale della narrazione, giustificando la lettura unitaria dei diversi episodi – un po’ come in Gente di Dublino di Joyce o in  La pianura in fiamme di Juan Rulfo – che mantengono tuttavia una loro autonomia. Il narratore corale del primo episodio è in questo senso esemplare: a raccontare la storia di Mortes, il rappresentante di commercio che è anche «l’uomo meno misterioso del mondo», è un narratore corale identificato con la cittadina del sottotitolo,  che sceglie quel posto sperduto per mettere fine a «un passato irreprensibile, comune e anodino, deprimente».

Il secondo equivoco di cui liberarsi sta nel considerare l’esordio di Corteo di ombre come un esperimento superato dai romanzi successivi: perché invece Ríos si manterrà fedele alla coesistenza di molte voci in costante dialogo tra loro, come già nel volume a quattro mani con Octavio Paz, Solo a dos voces, che aveva inaugurato la sua vocazione: «Se uno scrittore uccide gli altri scrittori che lo abitano e che lo contraddicono, commette qualcosa di peggio di un assassinio. Quando reprimiamo la pluralità e la contraddizione in noi stessi, la reprimiamo anche fuori; eliminiamo gli altri, attentiamo contro la realtà».

Pur non assumendo nomi diversi come in Pessoa, queste voci sono tutte ben presenti e riconducibili al fascino della parola letteraria: precisa e essenziale nella descrizione dei personaggi e dei luoghi, tanto quanto diverrà barocca e eccessiva negli anni Ottanta. In  Corteo di ombre si può dunque leggere una sorta di cerimonia d’addio, che dai modi del realismo migra, non solo metaforicamente, verso spazi nuovi, che Julián Ríos abiterà, facendosi al tempo stesso esploratore delle possibilità espressive della lingua spagnola di fine millennio.

Addentrandoci nei nove episodi del romanzo, troveremo la storia di un suicida che sceglie Tamoga come sua ultima tappa, quella di una vedova illustre che sembra venire da un racconto di Faulkner, e le sommarie fucilazioni dell’estate della Guerra Civile, che si riverberano nella ricerca di un medico in una notte di pioggia, ricerca motivata da un’antica volontà di vendetta. Pochi tratti sono sufficienti a rendere questi personaggi memorabili: fra loro, un moribondo che esce dal proprio corpo per osservare la vita intorno a sé nei tre minuti in cui gli si ferma il cuore, o l’emigrante dell’ultimo racconto, che torna al paese guidato da un incubo premonitore e fatale.

Tamoga è un luogo dove si va, o si torna, solo per morire, di una morte quasi sempre violenta, e il paese va immaginato su quella Costa da Morte che è popolata da leggende e storie di naufragi. Ma più che di fronte a morti accidentali, il lettore si troverà di fronte a eventi rituali e inevitabili,  attirati magneticamente a convergere in quel punto geografico abitato da personaggi «leggermente svogliati e nostalgici», indifferenti a quel ripetersi di tragedie sempre uguali. Da vicende individuali, le storie di Julián Ríos diventano allora destini universali, come rivela la citazione del Libro di Giobbe alla fine del libro, un esergo in chiusura: «Poiché noi siamo di ieri e non sappiamo nulla; i nostri giorni sulla terra non sono che un’ombra».