Quando ci si trova a vagare nelle sale di un museo e si sosta di fronte alle opere esposte capita di ascoltare i commenti degli altri visitatori. C’è chi, stupendosi, si profonderà in affermazioni del tipo «sembra vero»; altri loderanno la resa dei particolari; altri ancora proromperanno in sbuffi di noia e lamentele verso la ricerca di un punto ristoro. Inutile dire che le cose si complicano se si sta guardando un’opera «contemporanea», cioè, per dirla in modo semplificatorio, un’opera creata a partire dal secolo scorso. In quel momento le usuali ‘leggi’ e convenzioni utilizzate per dare vita a un quadro sono state sovvertite e rimesse in discussione. Su tutto, basterà ricordare le opere cubiste di Picasso e Braque.
In che modo un quadro ci interroga e ci spinge – nel migliore dei casi – a prendere una posizione nei suoi confronti? Perché, in fondo in fondo, un dipinto è poca cosa: un ritaglio di legno o di tela, o una porzione di parete, su cui l’artista applica del colore seguendo una composizione in modo da far intuire a chi guarda lo sviluppo tridimensionale dell’oggetto o degli oggetti rappresentati. Tutto qui. Gli elementi che compongono il ‘vocabolario’ dell’artista – parole come linea e forma, ad esempio, che portano con sé concetti cruciali stratificatisi nei secoli –, e che sono strumenti operativi veri e propri, vengono di volta in volta declinati secondo le necessità del momento.
Un aspetto decisivo, sul quale esistono riflessioni di primissimo piano, come quelle di Michael Baxandall, è che quadri e linguaggio non sono grandezze commensurabili: si deve per forza di cose ricorrere a una mediazione e, infine, a una trasformazione. Si deve passare dal dato figurativo a quello linguistico. Ora, uno degli aspetti più affascinanti di questo tipo di problemi è il fatto che, nel dar vita alle proprie opere, un artista non ragiona – le eccezioni ci sono sempre – come uno storico o un critico. Un artista ragiona da artista, e punta il suo sguardo alla soluzione compositivamente più efficace, quella che gli consente di dare una risposta ai problemi che l’opera gli pone. È in questa ‘zona grigia’, tra la verbalizzazione del critico e la scelta operativa dell’artista, che si situa il ‘discorso’ dello spettatore. E poi ci sono i casi in cui l’artista stesso si fa critico, e decide di impugnare la penna.
In un certo senso appartiene a quest’ultima categoria anche l’ultimo libro di Julian Bell, Che cos’è la pittura? (Einaudi «Saggi», pp. 284, 114 ill., euro 34,00). Bell infatti è un pittore e scrittore che vive e lavora in Gran Bretagna. Questa tradotta da Einaudi è la seconda edizione del volume, pubblicato per la prima volta nel 1999 da Thames & Hudson. Bell propone un percorso attraverso alcune categorie che danno forma e sostanza a quello che è divenuta la pittura nel corso dei secoli. Per comprendere il suo punto di vista bisognerà però ricordare che nell’edizione inglese il titolo era accompagnato da un sottotitolo, Representation and Modern Art, improvvidamente tagliato dall’edizione italiana (ma è mai possibile?). Perché, per secoli, il punto principale della pittura è stato quello di «rappresentare» il mondo, di «restituire» la natura. È l’atteggiamento che, consapevoli o meno, colgono quegli osservatori che affermano «sembra vero» davanti alle opere. In questo senso la pittura diveniva (e diviene) anche un processo di conoscenza, attraverso cui conoscere la realtà. Insistere allora sulla «rappresentazione» e sull’«arte moderna» vuol dire situare il discorso in quel crinale in cui la pittura ha via via ampliato il divario tra la sua pratica e la ‘fedeltà’ al dato naturale. Per quanto spesso si richiamino i problemi legati alla rappresentazione in ambito religioso, con tutto ciò che essa comporta in termini filosofico-teologici, il punto del volume è un altro. Dall’invenzione della fotografia, capace di fissare con maggiore esattezza i dettagli, la categoria di ‘rappresentazione’ (sino ad allora legata solo alla pittura) iniziò a subire uno slittamento. Probabilmente è stato, questo, uno di quei momenti epocali che noi, da osservatori del secondo millennio subissati di immagini, non riusciremo mai più a cogliere nella profondità delle sue implicazioni – basti pensare ai ritratti e a come si siano divaricate le strade di questo genere tra pittura e fotografia. E non solo la pittura non è morta, come profetizzava Paul Delaroche nel 1839, ma ha ridefinito i suoi obiettivi e (in parte) i suoi mezzi.
È significativo che a scrivere attorno a questo tema sia proprio un pittore. E per di più un pittore figurativo. Dopo la grande ondata astratta, è stato soprattutto dagli anni ottanta del secolo scorso che la ‘figurazione’ è tornata prepotentemente a popolare i quadri. Quindi il problema del rappresentare, del rapporto tra colori applicati su una superficie piatta e «tutto il mondo che sta al di fuori» di essa e di come questo rapporto vada organizzato, governato e restituito, è un problema centrale per Bell. Ciò che sembra chiaro è che l’atto del dipingere vale come atto conoscitivo di grande potenza. Si pensi ad Adolph von Menzel e al suo piccolo quadro del 1876, citato da Bell, in cui Menzel rappresenta un suo piede. Che cos’è ciò che vediamo? Che cosa diventa una volta riportato sulla tela? Qual è il ruolo del sé di chi dipinge? In che modo si legano tra loro questi problemi?
Nei sei capitoli che compongono il libro Bell di volta in volta concentra la sua attenzione su questioni specifiche che, via via, compongono un insieme coerente. Uno degli aspetti pregevoli del volume è che non si propongono soluzioni facili e pronte. Quello che si esprime è un punto di vista, personale e, per così dire, interno, che tenta di tracciare alcune linee interpretative per capire come la pratica della pittura (e i valori che le sono associati) siano cambiati e siano stati ridefiniti all’inizio del Novecento, come risultato di un lento processo iniziato ancor prima.
Così, alla fine, l’ultimo capitolo («Rappresentazione») riannoda le fila a proposito di questa categoria, smontata e rimontata nel corso dei cinque capitoli precedenti. Per quanto in alcuni punti – soprattutto là dove l’autore ricapitola alcune vicende di artisti e opere su un lungo periodo – il volume proponga alcune semplificazioni, resta il fatto che può essere utile per riflettere su certe categorie – natura, imitazione, realismo, forma, ecc… – che, comunemente, stanno in bocca a tutti (più o meno opportunamente) quando si ha a che fare con un dipinto. Di nuovo abbiamo a che fare con categorie che sono, prima di tutto, linguistiche. Insomma, siamo ancora in quel solco che sta tra il visuale e il linguistico e che di volta in volta costringe uno dei due campi a modellarsi sull’altro, a volte anche forzandone i limiti. «Si può penare molto per far parlare dei quadri che magari hanno molto poco da dire a parole» (Alan Bennett ). Convinti o meno dagli assunti di Bell, la speranza è che si possa riuscire a guardare a qualche quadro tentando di ‘farlo parlare’, sforzandosi di interrogarsi su quegli aspetti che lo rendono molto di più di una superficie piatta con del colore applicato sopra.