Nel giugno del 1885 tre improvvisati compagni di viaggio approdano a Londra allo scopo di fare «acquisti intellettuali e decorativi». Il primo è un principe, Edmond de Polignac, il secondo è un conte, Robert de Montesquiou-Fezensac, e il terzo è Samuel-Jean Pozzi, medico trentottenne ritratto nel dipinto di John Singer Sargent Dottor Pozzi a casa, esposto alla Royal Academy nel 1882.

I tre francesi sono muniti di una lettera di Sargent indirizzata a Henry James, il quale dedica loro due intere giornate ricordando in seguito che «morivano dalla voglia di conoscere l’estetismo londinese». Nel 2015 Julian Barnes si imbatte nel celebre ritratto appeso a una parete della National Portrait Gallery, ne rimane folgorato, e avvia una vera e propria indagine sul soggetto del dipinto. Ne emerge quattro anni più tardi con un nuovo appassionante libro, ora uscito nella traduzione di Daniela Fargione: L’uomo con la vestaglia rossa (Einaudi, pp. 284, € 22,00).

Doctor Pozzi at Home era stato dipinto quattro anni prima di quel viaggio a Londra e «il soggetto è il cittadino comune con un nome italiano – trentacinque anni, bello, con la barba, lo sguardo sicuro che punta oltre la nostra spalla destra». Di primo acchito siamo indotti a pensare che il centro del quadro sia la sontuosa veste da camera rosso vermiglio, ma Barnes ci assicura che non è così. Osservando meglio ci accorgiamo che le protagoniste sono le mani. «Le dita sono la parte più espressiva del dipinto. Ogni dito è reso in modo diverso: disteso, semipiegato, piegato del tutto». L’anatomia potrebbe far pensare a un pianista, ma forse c’è qualcosa di più allusivo: «mano destra sul cuore, mano sinistra sui lombi. Rientrava anche questo nelle intenzioni dell’artista? La mano destra gioca con quello che sembra un alamaro. La mano sinistra aggancia uno dei due cordini della cintura, che scendono fino sotto l’altezza dell’inguine, come il fallo di un toro scarlatto. Era questo ciò che aveva in mente il pittore? Chi lo sa. Non ha lasciato nulla di scritto sul quadro. Ma era un pittore malizioso ed eccessivo allo stesso tempo, per nulla spaventato dalle controversie; casomai, ne era quasi attratto».

Parigi capitale del sesso
La vivida ekfrasi è un efficace specchietto per le allodole, nel senso che il libro parla assai meno di pittura di quanto non ci si aspetterebbe dal titolo. Eppure non c’è dubbio che si tratti di un ritratto, e che il ritratto sia quello della «decadente, frenetica, violenta, narcisistica e nevrotica Belle Époque», che Barnes delinea con l’abilità del romanziere navigato seguendo le avventure, le amicizie e le inimicizie del suo più illustre ginecologo: l’altezzoso e irascibile Montesquiou (modello del Des Esseintes e del barone di Charlus), l’inetto Polignac, il pettegolo Daudet, il sordido Lorrain, gli ineffabili James e Proust, la ninfomane Sarah Bernhardt, che divenne l’amante di Pozzi e, oltre che con un figlio bastardo, «viaggiava con tutto un serraglio di animali (incluso uno scimpanzè chiamato Darwin)».

A tutti questi personaggi più o meno eccentrici il libro riserva ampio spazio documentario e immaginativo. Tuttavia, l’impressione è che lo sguardo di Barnes non si stacchi mai dalle mani affusolate e femminili dell’uomo in vestaglia, nel quale, con ogni evidenza, egli ravvisa un nucleo di profonda attualità. Samuel-Jean Pozzi curò famiglie reali, aristocratici, politici, scrittori e attrici famose. Fu un medico dell’alta società ma per trentacinque anni lavorò indefessamente all’ospedale pubblico Lourcine-Pascal, nel quale salvò centinaia di poveri affetti da malattie veneree. In una «Parigi capitale mondiale del sesso», del tutto impreparata a gestirne gli aspetti sanitari, importò procedure antisettiche e chirurgiche rivoluzionarie e fece costruire una sala operatoria specializzata in laparotomie. Lottò per emancipare la ginecologia dalla medicina generale, ottenne la prima cattedra in Francia e nel 1890 pubblicò un trattato che rimase fino agli anni Trenta l’autorità nel campo in tutta Europa.

Delle donne Pozzi conosceva i più intimi dettagli organici e ne amava tutto; andava a letto con le pazienti ma insegnava ai suoi specializzandi come non metterle in imbarazzo durante le visite. Convinto che la guarigione abbracciasse l’aspetto psicologico così come quello fisico, fece costruire una biblioteca all’interno dell’ospedale e commissionò a un pittore amico un affresco, la cui figura svettante al di sopra degli ammalati, abbigliata in uno sfarzoso abito bianco, è quella della Bernhardt. Ebbe un matrimonio di facciata con una ultracattolica ricca e anaffettiva con la quale generò tre figli da cui fu intermittentemente amato e odiato, e non si fece scrupolo di attraversare l’Europa in compagnia delle amanti per consulti, conferenze, o per andare all’opera. Era «razionale, scientifico, progressista, internazionale e avido di novità»: un uomo immerso nella realtà con una biografia degna del più avventuroso dei personaggi romanzeschi.

Riccamente illustrato e traboccante di dettagli stuzzicanti e di riflessioni sagaci, L’uomo con la vestaglia rossa è il gustoso affresco di un’epoca decadente, tradizionalmente identificata con il mito elitista del dandismo e con la predilezione dell’artificio sulla natura. In netta controtendenza rispetto alla vulgata, lo scrittore britannico più francofilo che ci sia cambia prospettiva e aggancia la Belle Époque dal lato di ciò che essa sembrò pervicacemente avversare, tanto in Inghilterra quanto in Francia: l’inarrestabile ascesa del professionalismo e del culto dell’esperto, che Barnes eleva a paradigma dell’epoca (a partire dal ritratto di Sargent), non per i valori borghesi che nega ma per quelli che afferma: duro lavoro, competenza, affidabilità, rigore scientifico, solidarietà, gusto della vita, amore per l’arte preferibilmente messa al servizio di tutti.

Se, come affermava Oscar Wilde, il dandismo è «il tentativo di affermare l’assoluta modernità della bellezza», nessuno merita l’appellativo di dandy più di questo elegante ginecologo che collezionava monete e arazzi, che si era fatto ritrarre ammantato del colore che celebra in modo inequivoco la sostanza della sua professione, e che spese la vita in ospedale – metaforicamente e letteralmente – fino al termine della Prima Guerra Mondiale.

Inconscio made in England
In singolare – junghiana – sincronia con i tempi che tutto il mondo sta vivendo, Julian Barnes scopre che la chirurgia praticata alla maniera di Pozzi traduce già il glam un po’ consunto del dandy fin de siècle nell’ambivalente profilo social del medico moderno. Letto da Oltremanica, The Man in the Red Coat rappresenta il gesto resistenziale di uno scrittore da sempre vocato all’Europa, costretto a confrontarsi con la «illusoria e masochistica insularità», che è parte dell’inconscio culturale del proprio paese e che è riemersa prepotentemente con la Brexit.
È l’autore stesso a riconoscerlo nella nota finale del libro. Barnes però si rifiuta di piangersi addosso e invita i lettori a immergersi nella vorticosa e cosmopolita Belle Époque «con allegria», confidando ancora una volta nell’effetto derealizzante e salvifico della memoria.