Il mondo è una cacofonia assordante, dice Julia Holter, e l’unica strategia di sopravvivenza è rispondere con un coro di voci e suoni che abbracciano epoche, culture, lingue diverse. Dalle canzoni dei troubadour occitani a un’artista libanese, da Dante a Pushkin, da Saffo alla monaca buddista Choying Drolma, quel balbettio incoerente è elevato a principio compositivo, arte empatica che invita a restare umani in un mondo che ci spinge verso una ferocia innaturale. Se l’arte non ha il compito di indicarci la strada che conduce fuori dall’inferno della Città dell’Uomo, perlomeno può aprire squarci di resistenza e di sfida. Aviary (uscito il 26 ottobre scorso su etichetta Domino) ce li offre in un disco doppio, novanta minuti nati da improvvisazioni voce e tastiere, trattate in studio con la sorprendente tavolozza di arrangiamenti à la Holter. Il canto spesso ricorre all’hoquetus, la tecnica polifonica medievale le cui origini sono in Africa, da dove si diffuse con la migrazione della popolazione di base. Tante voci per un’unica melodia: che sia la musica l’antidoto ai rigurgiti xenofobi?

Julia, ti rendi conto che questo non è un disco facile, soprattutto dopo un capolavoro pop come «Have you in my Wilderness»?

I miei dischi non hanno una direzione che decido di cambiare o seguire per l’album successivo, ognuno è diverso. Vorrei che le persone lo ascoltassero come vogliono, non necessariamente dall’inizio alla fine. È un disco fluido, si può sentire anche saltando da una canzone all’altra.

È davvero un opus magnum, e non uso il latino a caso, sia per la durata sia per la ricchezza di riferimenti.

Riguardo la lunghezza, ho dato alle canzoni di Aviary tutto il tempo di cui avevano bisogno. Ho deciso di esplorare territori che non frequentavo da un po’ e sono tornata a scrivere le liriche come faccio di solito, collezionando frammenti di testi altrui che poi metto insieme. Mi diverto di più a lavorare con testi preesistenti, anche di altre epoche storiche. Ho iniziato a farlo come esercizio al conservatorio e adesso è un procedimento che trovo molto naturale.

Immagino che nel tempo libero scrivi mesostici…

Sì! (ridendo, ndr) Ne ho scritto uno per una performance recentemente. È una cosa che ho imparato a scuola. È un gioco molto divertente: mi piace generare un testo a partire da un altro e renderlo una cosa a sé stante.

Perché Etel Adnan, la pittrice e scrittrice libanese che citi in «Aviary», è così importante per te?

Un amico mi ha regalato il suo romanzo Sitt Marie Rose, ambientato durante la guerra civile libanese, e mi ha consigliato di leggere anche Master of the Eclipse, una raccolta di racconti da cui sono tratte le citazioni di Aviary. Etel Adnan si chiede a che servono i poeti in questi tempi miseri, una domanda per me molto rilevante. («Angelus Novus è… il prototipo dei poeti/filosofi/artisti che si occuperanno di questi tempi miseri. È a questo che servono i poeti: a essere energia, a partecipare alle perenni battaglie fisiche e spirituali che si combattono per il destino dell’uomo», ndr). Quando ho iniziato a lavorare al disco, verso la fine del 2016, cercavo disperatamente di dare un senso alla vita per vincere il vuoto che provavo: mi sembrava del tutto inappropriato scrivere musica, era un periodo inquietante che continua tuttora. Dopo le elezioni la gente era scioccata, magari non proprio tutti, e io mi sentivo triste e spaventata, era difficile trovare le parole e capire che fare. In quel libro Adnan parla di un poeta a Baghdad e del peso che la guerra ha su di lui. Alla fine scrive: «Mi sono ritrovata in una voliera piena di uccelli urlanti». Questa immagine degli uccelli come creature belle ma anche minacciose è molto potente e mi è tornata utile perché nei testi che avevo raccolto c’erano già molti riferimenti a uccelli, angeli e ali. In un’altra storia parla di come la memoria ci segue sempre come uno stalker e i ricordi sono come gli uccelli, belli e assillanti allo stesso tempo. Master of the Eclipse è una bellissima raccolta di racconti sulla vita, un luogo a volte disastroso e minaccioso, e su ciò che accade all’artista e alle persone in genere nel corso del tempo. Mi ha aiutata a dare un senso alle mie riflessioni.

«Words I heard» si chiude con il verso «Ti amo nella Città dell’Uomo».

Tutto il mondo è in condizioni terribili, non solo gli Stati uniti, il cui presidente non sa nemmeno cos’è l’empatia. Anche altri paesi vivono ondate di nazionalismo e hanno leader autocratici che ignorano i diritti umani. È una situazione spaventosa che incoraggia a reprimere l’empatia che possediamo per natura: siamo manipolati e spinti a non sentire la responsabilità del prenderci cura degli altri. Mentre lavoravo ad Aviary ho riletto un po’ dell’Inferno di Dante, che avevo studiato al college. Nell’introduzione alla sua traduzione, Thomas Pinsky dice che la Città dell’Uomo è anche la rappresentazione radicale del mondo in cui viviamo, senza più tempo né speranza. La mia risposta sta tutta in quel verso: voglio estendere il mio amore al mondo.