Vi è una confusione semantica tra ciò che è violento e ciò che non lo è, in particolare là dove il discorso pubblico è a uso e consumo del potere. Judith Butler nel suo La forza della nonviolenza (Nottetempo, pp. 299, euro 19, traduzione di Federico Zappino) si concentra su questo passaggio vincolante, di cui ha accennato anche in testi precedenti (pensiamo solo a Parole che provocano riguardo l’uso del linguaggio) fino ad allargare lo spettro delle considerazioni che se non possono essere slegate dal contesto materiale cui si riferisce, gli Stati Uniti, altrettanto è impossibile non verificare ad altre latitudini, ovvero il resto del mondo. Sfruttare e occultare, monopolizzare e falsificare, sono alcune delle costellazioni che Butler fa emergere là dove la distinzione tra violenza e nonviolenza poggi sulla perversione strumentale di un’accusa unilaterale da parte del potere quando, per esempio, voglia punire il dissenso di movimenti, minoranze, comunità che lottano per la giustizia e la libertà. È il caso di Black lives matter ma anche delle rivolte di Gezi Park, così di molte altre circostanze che si sono presentate sulla scena pubblica in anni recenti.

A essere interpellate sono le relazioni sociali a un livello profondo di costruzione e implicazione del Sé, cercando di squadernare il legame che tiene insieme i soggetti nello scontro violento. Congedandosi anzitutto dall’individualismo, di marca neoliberista, si genera un rovesciamento nella praticabilità delle vite: in questa direzione «il compito della nonviolenza» è, secondo Butler, invertire la saturazione violenta del mondo anche quando sembra non vi siano altre strade, partendo dal corpo insieme a una critica radicale della realtà. Il tema centrale sembra essere ancora una volta che «la vita conta», come nel caso portato da Butler a proposito del movimento Black lives matter; nel bel mezzo di un momento storico come quello presente in cui tutto converge a una riconferma di quanto non si conti un bel niente e di come, per contro e utilizzando ulteriori significati che il linguaggio conserva, «contare» è al massimo un’attività aritmetica apocalittica, Butler sembra dirci che invece sì, contano quelle vite perché «assumono una forma fisica nella sfera dell’apparizione».

Le proposte di La forza della nonviolenza sono complesse, cariche di quesiti incalzanti e intuizioni notevoli nello sforzo di pensiero, per leggere l’oggi, compreso ciò che sta accadendo negli Stati Uniti in queste settimane. Rilevante, nella rappresentazione di una violenza sempre e solo strumentale al potere, sistemica e derivante per esempio da uno stato – con i suoi leader e apparati – che a destra propone un modello narcisista in cui l’altro può comparire quanto vuole ma non è stato previsto, in ogni caso, varrà la pena di leggere in chiave situata anche quanto l’autrice accenna in nel capitolo dedicato alla filosofia politica di Freud: «il tiranno non è che un antropomorfismo sorretto da reti di potere, e il suo superamento è maniacale, solidale e incrementale. D’altronde quando il capo di uno stato o di un governo si comporta effettivamente come un bimbo tirannico che lancia attacchi a destra e a manca (…) si apre un grande spazio per quanti mirano invece a tessere le proprie reti di solidarietà, a “liberarsi” della fascinazione per il tiranno e per la sua strategica perdita di controllo».

Butler non va per il sottile e prosegue infatti: «Nella misura in cui coloro che seguono il tiranno si identificano proprio con la sua capricciosa indifferenza per la legge e per ogni limite imposto al suo potere e alla sua capacità distruttiva, un contromovimento è quello che invece si fonda sulla disidentificazione. Le forme di solidarietà praticate da questo contromovimento non si fondano con l’identificazione con un leader, ma su una disidentificazione che opera all’insegna della “vita”, al di là di ogni riduzionismo vitalista: esso si schiera per un’altra vita, una vita futura».

A questa altezza, la vulnerabilità, su cui torna anche nell’ultimo volume, non può non far pensare alla pandemia e alla postura inutilmente agonistica dei vari Trump Bolsonaro e altri. Pensiamo poi al terrore, ugualmente irrazionale, con cui altri capi di stato hanno risposto dall’altra parte. E pensiamo infine alla misura di una concentrazione che tenga insieme quanto più possibile le vite di chi deve assistere quotidianamente alla spettacolarizzazione di ogni deiezione dominante. La vulnerabilità se non passa per i corpi in relazione – e ciascuno, come la vicenda attuale ci mostra, è differente – viene utilizzata da un lato come grimaldello atto a ribaltarne il segno nella direzione ora di una invulnerabilità (negazionisti), ora della sua moltiplicata persistenza nella colpa individuale (punitivisti). Entrambi questi «modelli discorsivi», compiaciuti mortiferi e depressivi nei propri monologhi, sono strumentali al potere secondo cui non è ancora una volta previsto che sopravviva nessun altro. La sopravvivenza è al momento già sovversione, la vulnerabilità è solo una delle narrazioni di cui ci hanno disappropriato.

È dal basso di una esperienza incarnata che la si dovrebbe considerare, come ipotesi per ridisegnare nuove prossimità di saperi, di cure, parentele di guarigione possibile, in uno spazio politico in cui non si azzereranno i privilegi, anzi continueranno a eternizzarsi, compresi quelli alla salute nell’accesso alle strutture deputate e nella tempestività di azione, contro chi muore nelle case e nelle strade della nostra dimenticanza. Se a questa violenza sistemica e di morte, etica e politica a un tempo, non opporremo un capovolgimento erotico e appassionato di interdipendenza, saremo destinati a un mondo non più praticabile, del tutto asfittico, sacrificabile.