Gli artisti si sono confrontati, si può dire da sempre, con la pratica della scrittura. Se per le epoche alte della Storia si ha a che fare con scritture, per così dire, ‘funzionali’ – i contratti, le indicazioni progettuali, i ricettari medievali –, è con l’epoca moderna, e con la progressiva affermazione dell’artista quale intellettuale a pieno titolo inserito nella società, fosse essa una società di corte o una società mercantile, che le testimonianze si infittiscono e divengono via via più complesse e articolate. Certo, ineludibile è l’esempio di Giorgio Vasari che, con la duplice edizione delle Vite (1550 e 1568), sancisce in modo esemplare la sovrapposizione tra artista e scrittore senza mai rinunciare, è bene sottolinearlo, a un’orgogliosa rivendicazione d’alterità rispetto a quelli che oggi si definirebbero i ‘critici’. «Sono un artista, e scrivo, da artista, una storia delle arti»: questo, parafrasando, uno dei messaggi di Vasari.
Le note di Matisse
Insomma, una pratica secolare quella della scrittura degli artisti, nella quale è possibile individuare una vera e propria longue durée di temi, problemi e proposte. Con il Novecento, e in particolare con le avanguardie storiche e la loro pratica dei ‘manifesti’ (su tutti basti pensare agli svariati manifesti futuristi), le cose cambiano sensibilmente. Gli artisti che impugnano la penna assolvono ora a funzioni diverse, si scontrano e confrontano con un orizzonte completamente mutato. Ed è una scrittura, la loro, molto spesso venata di istanze provocatorie, atte a scardinare luoghi comuni e a impostare nuove vie tanto per la ricerca del linguaggio espressivo in sé quanto in un più generale confronto con il pubblico. Ed è sempre nel corso del ventesimo secolo che le pratiche scrittorie si differenziano vieppiù rispetto al loro obiettivo. Così si può pensare a esempi che ci permettono di entrare nella pratica viva di pittori e scultori: le meravigliose Notes d’un peintre (1908) di Henri Matisse spiegano al lettore quali siano i meccanismi di creazione seguiti dall’artista. Attraverso questo tipo di scritti si entra in un terreno che è quello proprio della pratica artistica: ragionare da pittori (o da scultori, o da architetti) non è ragionare da critici. In alcuni casi si assiste a dei depistaggi belli e buoni (si pensi al caso di Arturo Martini), in altri invece si coglie una sfumatura differente, come un tentativo di chiarificare certi processi creativi e dargli una (apparente) coerenza, in primis per sé stessi, poi per un eventuale pubblico.
Tutti questi aspetti, trascelti pur così sommariamente e in modo quasi casuale da una possibilmente ben più ampia serie di esempi, si ritrovano anche nella corposa edizione degli scritti di uno degli artisti più importanti della seconda metà del Novecento: Donald Judd (1928-’94). In questa nuova edizione, Donald Judd Writings, a cura di Flavin Judd – figlio dell’artista – e Caitlin Murray, (Judd Foundation-David Zwirner Books, pp. 1054, 180 ill., la più completa sinora pubblicata), sfilano gli scritti di uno dei padri dell’arte Minimal: dalle prime prove come graduate student alla Columbia University a New York (uno scritto per un corso dedicato all’antica arte messicana e peruviana o un’analisi dell’opera di James Brooks, Ainlee – 1957, The Metropolitan Museum of Art –, scritto nel 1959 per il corso di Meyer Schapiro dedicato all’arte moderna dal 1900) sino agli scritti degli anni novanta, che coagulano le riflessioni di Judd intorno a temi come il colonialismo, l’internazionalismo artistico, la Guerra del Golfo.
Al centro stanno testi ben noti e giustamente famosi, come Specific Objects (1964), dichiarazione di poetica a proposito della ‘nuova’ arte degli anni sessanta; o gli scritti in cui Judd, da pubblicista, recensisce mostre come quella di Kazimir Malevich che si tenne al Solomon R. Guggenheim Museum nell’inverno 1973-’74; o ancora testi che si concentrano sul rapporto tra arte e architettura, frutto di una lezione tenuta alla Yale University School of Art nel settembre 1983.
Piero era «italiano»?
Ma sono raccolti anche gli scritti ‘privati’ dell’artista: le note prese in viaggio dopo aver attraversato Firenze o Colonia, le sue impressioni a proposito della Guerra Fredda e della politica americana. Un artista assai colto, Judd, la cui curiosità e voracità emerge dalle pagine dei suoi scritti, tanto di quelli ‘pubblici’ come da quelli ‘privati’. Un artista che, come scrive Flavin Judd nella prefazione, credeva strenuamente nella necessità della conoscenza come antidoto alla stupidità. Le considerazioni circa il ‘nazionalismo’ artistico, ad esempio, offrono uno spettro ampio di possibile riflessioni di fronte a questi problemi: che cos’è, si chiede Judd, un’arte nazionale? Ha senso parlarne? Piero della Francesca e Albrecht Dürer (questi i due artisti che egli cita) si consideravano forse «italiano» l’uno e «tedesco» l’altro? È una visione ex-post, quella di un’arte nazionale, che i critici costruiscono per comodità ma sulla cui natura artificiale Judd ci invita a riflettere.
Una pratica, quella della scrittura, che l’artista non ha praticamente mai abbandonato ritornando, come spesso accade, su temi e nodi che ogni volta hanno stimolato riflessioni e proposte differenti. In una breve nota risalente al 1984 Judd rileva che, rispetto a quando ha iniziato a scrivere, manca un pubblico cui rivolgersi: «potrebbero esserci una manciata di persone, ma non c’è un pubblico». Questo è un tema che emerge con forza sempre maggiore nella sua riflessione e al quale spesso l’artista prova a rispondere in modo molto articolato, attraverso analisi che spaziano da problemi sociali sino a quelli già ricordati del colonialismo e dell’«internazionalismo» artistico in un mondo ormai globale. C’è anche una continua riflessione sugli anni precedenti alla maturità di Judd, gli anni che videro la piena affermazione dell’Espressionismo Astratto e di Clement Greenberg quale critico e interprete di quel gruppo di artisti: «l’ammirazione monosillabica» per l’opera di Jackson Pollock (la definizione è di Barbara Rose), ad esempio, le riflessioni sulla critica e sui critici e sul loro atteggiamento nei confronti dell’avanguardia. Sono gli scritti prodotti tra la fine degli anni cinquanta e i primi Sessanta, quando Judd scriveva per «Arts Magazine» in qualità di critico e svolgeva la sua attività di artista ‘in privato’ (la sua prima personale inaugurò solo nel 1963).
Riflessioni politiche
Sono moltissime le fila che un lettore può trascegliere nella mole del volume. Ci sono alcuni problemi su cui Judd periodicamente ritorna, quasi fossero un fiume carsico che si riaffaccia di continuo alla superficie con i suoi interrogativi; si coglie sempre una certa militanza; una riflessione permanente sulla società e sulla politica e sul posto che la riflessione culturale (sia essa artistica, storica o filosofica) può occupare in esse. Nel loro insieme le pagine dell’artista lasciano emergere anche la loro totale disomogeneità: come precisa Flavin Judd, gli scritti di Donald «are his verbal sketchbook», e come in quasi tutti gli «sketchbooks» i pensieri si organizzano in un modo asistematico, spesso frammentario, lasciando emergere temi che si inseguono e si accavallano in modo più o meno palese, come fossero – seguendo ancora una metafora di Judd figlio – gli «strumenti» in una «toolbox» mai banale ma che, anzi, può offrire anche qualche sorpresa