Da qualche parte, tra le pagine di La vana fuga degli Dei, James Hillman scrive che un principio di paranoia è alla base di ogni forma di conoscenza. Se non sfocia in patologia, infatti, la paranoia mette il mondo sotto processo, gli accende una lucina in faccia, lo sottopone a un interrogatorio, lo sfinisce fino a farlo contraddire, e dunque finalmente confessare. La conoscenza, dice in qualche modo Hillman, si produce anche grazie a questa istruttoria convocata dal nostro Paranoico interiore. Il sospetto come meccanismo generativo del sapere, dunque. Presumere il falso, per raggiungere per vie traverse il vero. E viceversa. Potrebbe sintetizzarsi in questo andirivieni tra sospetto e verità, tra finzione e realtà, la parabola letteraria di Juan Gabriel Vásquez.

Nel romanzo Storia segreta del Costaguana (traduzione di Bruno Arpaia, Ponte alla grazie, 2008), lo scrittore di Bogotà prendeva le mosse dalla leggenda secondo cui Joseph Conrad sarebbe stato in Colombia, nel 1876, dandole poi il nome fittizio di «Costaguana» in Nostromo. Quel dubbio dava il via a un domino di dubbi che finivano per travolgere la storia politica della Colombia, vero cuore del lavoro di Vásquez sin qui. Poi fu la volta di Gli informatori (Ponte alle Grazie, 2009), e successivamente di Il rumore delle cose che cadono (Ponte alle Grazie 2012), a oggi di gran lunga il suo romanzo migliore e dopo ancora del notevole Le reputazioni (Feltrinelli, 2014). La menzogna stringe alla gola la Colombia, sembra dire continuamente Vásquez. È solo attraverso un’altra menzogna, quella della letteratura, che è possibile far saltare fuori la verità, o meglio quel suo tramite che è il sospetto.

Nell’ultimo romanzo, La forma delle rovine (ottima la traduzione di Elena Liverani, per Feltrinelli, pp. 512,  euro 20,00), lo scrittore colombiano alza ulteriormente l’asticella. La paranoia diviene infatti l’architrave stessa del romanzo. Il protagonista, Carlos Carballo, è quello che diremmo un complottista, esattamente del tipo di coloro che, dice Vásquez, sostengono che sia sta la Cia far collassare le Twin Towers l’11 settembre del 2001. L’ossessione di Carballo – che compare in manette nelle prime righe del libro – è quella di confutare le cosiddette verità di due delitti centrali per la storia della Colombia: l’assassinio, nel 1914, del senatore Rafael Uribe Uribe, e quello, avvenuto nel 1948, del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán.
A condire il tutto, nessi dietrologici con l’omicidio Kennedy, il 22 settembre del 1963 a Dallas, che il complottista Carballo snocciola con rigorosissimo delirio. L’intreccio tiene il tutto insieme, bucando la rete di parole con finestre inconografiche: fotografie usate con funzione sebaldiana, ovvero la realtà che spacca il vetro e finisce sul divano di chi legge.

Tra le fotografie, ci sono lettere scritte a mano, appunti, documenti, e soprattutto due reliquie. Una sezione della colonna vertebrale di Gaitán e la scatola cranica di Uribe Uribe. Il vero ridotto all’osso è il vero assoluto, però è incapace di parlare. Il complottismo paranoico di Carballo è parodistico, quello di Vásquez è metodologico: la letteratura cerca di fare musica con le ossa dei defunti.

Perché il metodo di Vásquez sia completo, manca che anche chi racconta sia parte di questa dialettica. E infatti chi racconta si chiama Juan Gabriel Vásquez, ha scritto Gli informatori e Il rumore delle cose che cadono, ha vissuto a Parigi e Barcellona (come l’autore), ha due gemelle – il racconto della loro nascita è molto intenso – e ha un rovello che lo spinge a raccontare: entrare dentro le pieghe della storia politica del suo paese, la Colombia. Quando si trova di fronte a Carballo, che gli chiede di dare voce attraverso un romanzo alle sue teorie complottistiche, Vásquez si sorbisce una recensione sommaria dell’opera completa: «Ho letto i suoi racconti, quelli ambientati in Belgio. Mi dica, Vásquez, perché perde tempo con quelle stronzate? (…) Con una guerra civile qui a casa sua, con più di ventimila morti all’anno, con un’eseperienza di terrorismo come non si è vista in nessun paese dell’America Latina, con una storia segnata sin dall’inizio dall’uccisione dei nostri grandi uomini, lei se ne stava a scrivere di coppiette che separano nelle Ardenne. Io non lo capisco. E il suo romanzo, quel romanzo dei tedeschi, be’, quello è migliore. (…) Ma ancora una volta devo essere onesto: il risultato nell’insieme è un disastro».

Ed è lo stesso Carballo a dirgli: «Vásquez, lei ha bisogno di impegno, amico mio, impegno nei confronti delle cose difficili di questo paese». E poi: «È all’altezza di scrivere il libro della sua vita?».

Ecco, se Vásquez si fosse immedesimato di meno nel personaggio a cui si era fatto assomigliare, a cui aveva prestato nome e fatti salienti della vita, non avrebbe finito per dare così tanto credito a quell’altro delirante personaggio di Carballo, e ancor meno avrebbe seguito i suoi consigli nell’ambito che gli è proprio, ovvero la letteratura. La forma delle rovine è un libro così programmatico da fare l’effetto di un commentario ragionato – di oltre cinquecento pagine – a un’opera molto più ricca e anarchica di quella qui compendiata. Letto dopo i romanzi che l’hanno preceduto, questo libro dà l’impressione di un tentativo di istituzionalizzazione, un titolo da consegnare alla commisione della Storia. Ma per fortuna i libri di Vásquez sono molto più imprevedibili, e mossi da spinte molto più misteriose di quel che La forma delle rovine racconta.
È possibile che Juan Gabriel Vásquez sia tra gli scrittori più interessanti dell’America latina di oggi – e io penso che lo sia –, ma forse non è ancora il momento per lui di tirare le somme. Continui a tirare i dadi, piuttosto, e a stupirsi del numero che esce.