«Se il tuo pubblico non balla, allora devi rivedere quello che fai, perché non funziona». Non aveva dubbi, Juan Formell, quando, un paio d’anni fa tentai di intervistarlo dopo un concerto: è il ballerino che decide. Perché ballare è parte integrante della cubanía, quel minestrone (ajiaco) di culture – afro, spagnola, india e chi più ne ha…) che secondo il grande etnologo Fernando Ortiz definisce l’essere, più che la cultura, del cubano. E quando «il treno» dei Van Van si mette in modo non ce n’è per nessuno: a Cuba (ma anche nel resto del mondo) si balla, e si balla, fino allo sfinimento. Senza musica, senza mover la cintura, non è vita.

È quello che ho sperimentato la prima volta nel 1999 al Salon Rojo, quando i Van Van celebravano i trent’anni da quando, nel ’69 appunto, Formell , non ancora trentenne, diede vita a una formazione atipica rispetto all’ortodossia della charanga. E a una nuova sonorità che aveva battezzato songo, ottenuta iniettando il basso elettrico, i tromboni e i violini accanto al flauto traverso della charanga, dando un impulso tra il pop e il jazz al son cubano. Nel songo confluivano appunto la tradizione cubana e gli influssi che venivano «da fuori», specie il pop, i Beatles che Formell, come decine di migliaia di cubani, ascoltava in semicladestinità, perché il governo – «inspiegabilmente» ebbe a commentare – li aveva messi al bando.

Di songo, allora non sapevo nulla, ma quando, verso mezzanotte, si mise in moto il «il treno della musica», la massa informe, disordinata e rumorosa formata da più di un migliaio di cubani iniziò a muoversi al ritmo dei Van Van. E seguì ballando fino alle tre di mattina, mentre allibiti, un gruppo di turisti guardavano e si dondolavano alla meglio in una terrazza sopra lo spiazzo del Salon Rojo, divenuto una specie di fossa dei leoni, dove nemmeno i poliziotti che dovevano garantire la sicurezza osavano mettere piede. Ai turisti, appunto, non era consigliato – se non proibito – scendere in quella fossa: si pagava in valuta (allora il dollaro) e si stava in alto a guardare. Ma giù, di fronte alla band che già veniva definita «i Rolling Stones di Cuba», tutto funzionava alla grande: tutti ballavano.

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Quel ritmo che nulla aveva da invidiare alla salsa made in New York, ma con sonorità genuinamente cubane, era il prodotto, appunto, delle inquietudini di Juan Formell. Il giovane musicista era una creatura della Revolución, nato all’Avana nell’agosto del 1942, già nel ’59 era bassista nella banda della Polizia nazionale rivoluzionaria, che in musica non era rivoluzionaria, ma nazionalista, e obbligava Formell ad apprendere e praticare le forme musicali autoctone. Con queste basi, si integrò successivamente in una serie di orchestre habanere, Perruchín, Rubalcaba, Faxas fino alla band di Elio Revé che gli affidò l’incarico di direttore musicale e dove ebbe l’opportunità di sperimentare nuove sonorità. Dalle quali nacquero i Van Van, in un clima rivoluzionario, quello della «zafra (taglio della canna da zucchero) delle dieci milioni di tonnellate» lanciata da Fidel, con lo slogan «que van van», ovvero tutti al lavoro volontario, a cortar caña . La zafra andò male, ma i Van Van rimasero.

Anche perché non erano una banda dottrinaria. «Mi è sempre piaciuto rompere, sono per natura un anticonformista. E non mi pento», aveva dichiarato Formell. Di certo era consapevole delle esigenze del governo rivoluzionario e sapeva metterle in musica come il cronista, forse il poeta, della quotidianità che era. Così nacque La Habana no aguanta más, che con un ritmo irresistibile racconta la massiccia immigrazione nella capitale dalle province – più povere – orientali. Ma in generale i suoi grandi successi non toccavano temi politici, parlavano di sesso, di cibo e bevute o di entrambe queste ossessioni cubane. Il tutto con un linguaggio de la calle, ironico, pieno di doppi sensi, ma senza volgarità. Così evitava di mettersi nel lio delle polemiche politiche in un’isola dove tutti ti chiedono di schierarti, non cedette mai alle pressioni di chi gli chiedeva di criticare il governo socialista, mentre ironizzava sulle accuse dell’emigrazione di Miami di aver stabilito «un patto segreto con il castrismo».

Anche rispetto a quelle che vengono definite le sue creature, il songo e la timba, aveva un certo distacco. «È molto difficile creare un genere musicale totalmente nuovo, mente chi dice il contrario. Quello che puoi fare è mischiare i generi, prendendo di quà e di là. Il songo viene dall’interazione della ritmica della batteria, con elementi del pop, con la sonorità che sono riuscito a dare ai violini e, chiaramente, con i miei testi. Accentuata la forza del modello ritmico, si è cominciato a parlare di timba, ma alla base di tutto sta la tradizione cubana e la sua capacità di rinnovarsi», aveva commentato. In questo ambito, nei suoi Van Van, Formell aveva concesso libertà creativa a musicisti di valore come il percussionista “Changuito”, al sonero Pedro Calvo, al pianista – e compositore prolifico – Puppy Pedroso o al flautista José Luis Cortés, che poi fondò la famosa NG La Banda.

Sono loro, figli del «treno della musica», che hanno reso omaggio a loro modo a Formell, venerdì, nella lobby del Teatro nazionale di Cuba, di fronte alle corone di fiori inviate da Fidel e dal presidente Raúl e a una marea di persone che davano l’estremo saluto al musicista. La voce roca di Pedrito Calvo a intonare la Sanduguera, seguito da “Pupy” Pedroso col suo timbao nel pianoforte, con il ritmo impresso dal “Changuito” e il coro dei ragazzini della Colmenita. Un treno che nella serata di sabato si è rimesso in moto nella Cantata per Formell, l’estremo omaggio che il paese e l’Avana hanno dato al musicista nel malecon (lungomare della capitale) dove sono stati interpretati i temi più famosi dei Van Van. E dove, naturalmente, si è ballato e ballato.