Il racconto è un genere che in Italia gode oggi di scarso credito benché la novella sia all’origine della nostra tradizione narrativa e grandi scrittori fra ‘800 e ‘900 siano stati fra i suoi maggiori innovatori. Supplisce a questa carenza la traduzione dei libri di maestri stranieri della forma breve, provenienti soprattutto dal mondo americano, dove la sua fortuna è andata di pari passo al romanzo e riviste come il «New Yorker» e «Harper’s» pubblicano regolarmente short stories alimentando l’interesse di autori e editori a costruire quei meravigliosi mosaici che sono le raccolte di racconti. L’ospite d’onore della statunitense Joy Williams è uno di questi libri preziosi, appena arrivato in Italia grazie alle nuove Edizioni Black Coffee (traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti, prefazione di Mariarosa Bricchi, pp. 660, € 18,00). Uscito in America nel 2015 con il titolo The Visiting Privilege questo grosso tomo è una scelta antologica di testi pubblicati in tre precedenti volumi con l’aggiunta di tredici nuove storie, per lo più scritte in anni recenti.

Quasi sconosciuta in Italia, Joy Williams è fra le grandi voci della narrativa contemporanea grazie ai suoi quattro romanzi e soprattutto ai racconti, che le hanno guadagnato l’ammirazione, fra gli altri, di Raymond Carver, di Don DeLillo e di George Saunders. È stato scritto, ed è vero, che leggere la sua narrativa dà l’impressione di camminare lungo il bordo di un abisso: basta volgere lo sguardo e si precipita nel buco nero dell’apparente normalità di situazioni dove solitudine, incomprensioni, assenza di affetto e precarietà sono ricorrenti.

Il basso continuo della quotidianità
Fin dal primo racconto, il più vecchio, ci troviamo davanti personaggi e contesti tipici della scrittrice americana. Protagonista è il pastore di una piccola congregazione che per trentacinque anni ha scritto sermoni e predicato l’amore incondizionato e la rettitudine verso tutto e tutti: quella di Jones è, nel suo contesto, una anomalia, una sorta di investimento a fondo perduto, per lo più ignorato dai destinatari. Il predicatore «da qualche parte ha perduto ciò che cercava», come del resto sua figlia, che ha abbandonato alle cure del padre il cane nonché una bambina di sei mesi, nata «per errore» in un matrimonio fallito. L’adorata moglie di Jones sta morendo di cancro, la lepre che corre sulla neve viene uccisa proprio mentre egli invita la nipotina ad ammirarne la bellezza. Ma il pastore non si arrende e tiene tutto in ordine – bambina, parrocchia, fede e casa, che nel finale viene descritta come risplendente e profumata per accogliere la moglie dimessa dall’ospedale per Natale. A se stesso e agli altri, Jones ripete l’espressione colloquiale «take care» coi i suoi molteplici significati: stammi bene, riguardati, abbi cura di qualcuno o qualcosa: quel che fa lui stesso, del resto, provvedendo a sé e agli altri.

Il mondo di Joy Williams e dei suoi piccoli attori ci racconta la fragilità dell’esistenza esibendo storie di famiglie scomposte, di personaggi soli in desolati paesaggi, di figure grottesche in una grandiosa epopea contemporanea della provincia statunitense. Sono personaggi che parlano a ruota libera, unendo elementi triviali a altri tragici, in una lingua idiomatica dove sono presenti molti dialoghi. Il tono basso, quotidiano e privo di emozioni, è una coinvolgente attualizzazione del plain style, quell’andamento narrativo semplice e diretto di origine puritana con cui Williams, figlia di un pastore e profondamente influenzata dalla Bibbia, ha una profonda dimestichezza. Ci dobbiamo rassegnare al fatto che la davvero meritoria traduzione non colga, a volte, alcune peculiarità: si concentra felicemente sullo sviluppo narrativo, sacrificando spesso i soprassalti linguistici dell’originale per consegnare al lettore un testo scorrevole anche quando vengono semplificati gli stratagemmi di uno stile che è effettivamente molto difficile rendere in un’altra lingua.

Violente dinamiche familiari
Nell’insieme, L’ospite d’onore restituisce un coro di voci anonime ma esemplari della migliore tradizione statunitense e ricorda la coralità di Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, altro grande autore di racconti della provincia americana, o i frammenti poetici dell’Antologia di Spoon River. Quando non portano nomi del tutto comuni – Jane, Jenny, Molly, Tom – i protagonisti sono spesso indicati come tipi: il ragazzo, la bambina, la mamma, il giardiniere, il guardiano del ponte, la figlia. Numerosa la schiera di genitori vinti dai guai della vita o dall’alcol, incattiviti, sarcastici e regrediti in ruoli subalterni rispetto ai figli, vittime del loro declino. Molte le donne sole, giovani o anziane, divorziate o vedove, malate o depresse, che flirtano con la morte. In «L’amante», una madre venticinquenne incapace di amare dipende, nelle notti insonni, da un talk-show radiofonico in cui l’Uomo dalle Mille Risposte sembra dar voce alla sua tetra visione della vita: «la terra non è più un luogo sicuro…se scavi abbastanza a fondo, sotto la crosta trovi un’eternità vuota…»; in «Pastore» una ragazza concentra il suo affetto su un cane, che si ribella al suo amore morboso gettandosi in mare; altrove una madre morente trasferisce sulla figlia undicenne i suoi incubi; due genitori, in un altro caso, si sbranano a parole mentre rientrano in treno dalle vacanze, imitati dalla giovane figlia che reagisce trasferendo un analogo odio sull’amica e su alcuni passeggeri.

Per lo più bambini o adolescenti, i figli spesso si prendono cura dei genitori e al tempo stesso li disprezzano: sono precoci e incattiviti, testimoni di dinamiche familiari violente. Cani di ogni razza, non amati, abbandonati o abusati, affiancano spesso i personaggi. L’ambientazione dei racconti – fra l’Arizona, la Florida, e il New England – prevede case isolate, motel, piccole comunità, distributori di benzina, anonimi diner dove si mangia e si beve a ogni ora, a volte la strada stessa. In questo colossale ritratto della provincia americana, che è anche un compendio degli umani comportamenti, ogni racconto aggiunge una scena e ci dice come sotto il fluire tranquillo della vita scorrano correnti imprevedibili, che di tanto in tanto emergono nei movimenti bruschi di una frase, in una parola che inverte la rotta o il ritmo degli eventi.

Magistrali orchestrazioni
Non tragga in inganno la semplicità della lingua di Joy Williams: in essa coesistono registri e stili diversi, magistralmente orchestrati per mettere a fuoco la psiche dei personaggi, sospesi fra drammi passati e presenti, ansiosi di evadere verso un’immaginaria quanto improbabile felicità. Si va dal cantilenante sottofondo di matrice religiosa allo slang giovanile, dall’insinuarsi del macabro umorismo in un pacato discorso alla battuta divertente, all’irruzione di scene surreali a ragionamenti filosofeggianti, fino alla incursione nella pura commedia.

La struttura tipica del racconto orale ricorda inoltre il tall-tale del folklore americano, il racconto popolare umoristico che intreccia l’assurdo al reale e ci coinvolge come fossimo davvero a teatro. Un abile gioco della punteggiatura, delle ripetizioni di parole e frasi e dello spazio fra parola e silenzio contrae o distende il ritmo delle conversazioni. Joy Williams è una scrittrice da ascoltare più che da leggere perché come lei stessa dice, «presa alla lettera, la superficie non è importante». Importanti sono le microstorie verso cui ci conducono queste voci della media e bassa borghesia statunitense, resa familiare nel cinema da Robert Altman, e nella pittura dal realismo dei quadri di Hopper e delle fotografie di Gregory Crewdson.