Walter Benjamin sostiene che raccontare una storia è un atto di giustizia. Perché significa restituire a chi è stato escluso dal mondo il posto che merita. Non sempre per la verità il racconto biografico, genere letterario assai popolare, sembra percorrere questo orizzonte etico. Anzi, nella maggior parte dei casi i biografi si dedicano al racconto delle vite di chi un posto nel mondo lo ha sempre avuto. Regola che vale, ovviamente, anche nel sottogenere delle biografie musicali. Tra gli «illustri» e i «meschini» – come diceva Giovanni Ansaldo – musicologi, storiografi e musicografi scelgono risolutamente, nella maggior parte dei casi, gli illustri. È invece un «possente mucchietto» quello dei compositori e degli interpreti che ancora attendono un atto di giustizia: i molti esclusi dalle culture dominanti del Primo e del Secondo Mondo, ma anche i pochi che invece hanno avuto la sventura di nascere nel Terzo e nel Quarto.

Da meschino a illustre
Tra i più impazienti c’è sicuramente una figura letteralmente «extra ordinaria» nel paesaggio musicale dell’Occidente: Joseph Bologne Chevalier de Saint-Georges, compositore, violinista, direttore d’orchestra, ma anche spadaccino, ginnasta, cavaliere, soldato, rivoluzionario che nell’arco della sua esistenza terrena, vissuta tra il 1745 e il 1799, ha guadagnato fama, onori e successi. Ma che poi il tempo ha divorato. L’atto di giustizia più alto che Joseph Bologne meriterebbe sarebbe, in realtà, quello di considerarlo semplicemente un musicista, un atleta, un soldato. Senza alcun aggettivo. E invece no. Perché agli occhi dei suoi contemporanei le Chevalier non poteva nascondere una imperdonabile anomalia: quella di avere la pelle nera. Tanto da guadagnarsi in vita, e post mortem, il soprannome di «Mozart Nero». Proprio così, Il Mozart nero L’incredibile storia del Chevalier de Saint-Georges, spadaccino, violinista, compositore e colonnello nella Francia del Settecento (Diastema , pp. 276, € 20,00) si intitola un denso studio biografico realizzato, dopo anni di indagini e ricerche, da Luca Quinti. Un prezioso, documentato, indispensabile «atto di giustizia».

L’albero genealogico di Joseph ha radici antiche e rami rigorosamente bianchi. I suoi antenati, probabilmente di origine olandese, lasciano verso la metà del Seicento il Brasile e approdano ad uno dei «paradisi terrestri» del tempo, l’Arcipelago delle Antille, già fatto a pezzi e spartito come un bottino di guerra tra le grandi potenze coloniali: Cuba, Portorico e metà di Santo Domingo alla Spagna, Giamaica e Barbados all’Inghilterra, Curaçao, Aruba e Saint-Martin all’Olanda, l’altra metà di Santo Domingo, Martinica e Guadalupa alla Francia. Ed è proprio in Guadalupa che sbarca la famiglia Bologne. Il nonno di Joseph, Pierre II, acquista intorno al 1704 una grande piantagione di canna da zucchero e nel giro di pochi decenni costruisce un piccolo impero commerciale: una piantagione di caffè, case padronali, un magazzino, una distilleria, stalle, animali, appartamenti. E naturalmente decine, e poi centinaia, di schiavi, il vero termometro che misura la ricchezza dei Grand Blancs come vengono chiamati i possidenti europei: esattamente trecentotrenta tre, come annota Quinti.

Coup de théâtre
Proprio di una schiava nera, dopo essersi sposato con la francesissima figlia di un chirurgo di stanza nell’isola, si innamora il figlio di Pierre II, Georges: la prescelta è Anne Nanon, considerata una delle «donne più belle di Guadalupa». È da questa scandalosa unione extra coniugale, sempre ammessa e vissuta però alla luce del sole, che nasce nel giorno di Natale del 1745, il piccolo Joseph Bologne. Lo aspettava, come tutti i figli di un padrone bianco e di una schiava nera, una vita misera, senza diritti, senza educazione e senza dignità. Ma il destino aveva riservato a Joseph un autentico coup de théâtre.

La svolta avviene otto anni dopo, nel 1753. Papà Georges si rifiuta di crescere Joseph nella lontana Guadalupa. Lo vuole invece educare in Francia e farne un vero gentilhomme. E così il 12 agosto del 1753 padre e figlio, a bordo del vascello Bien Aimé, approdano al porto di Bordeaux. Presto verranno raggiunti da tutta la composita famiglia: moglie legittima, figlia bianca e schiava liberata. A tredici anni Joseph viene iscritto d’imperio a una delle più rinomate scuole di scherma del regno, quella creata da Nicolas de La Bossère, singolare figura di maestro d’arme e poeta. Qui impara non soltanto a tirar di spada e di fioretto, ma anche la letteratura francese, le scienze, la grammatica, la danza, l’equitazione, la musica e il bon ton. Secondo i canoni del più squisito style galant.

A diciannove anni, dopo sei anni di studio, Joseph, fisco imponente, forza erculea, ma volto gentile e modi cortesi, eccelle in tutte le discipline. Ma è la scherma il suo vero talento: a metà degli anni Sessanta è riconosciuto e ammirato come «miglior spadaccino di Francia», il Tartini del fioretto, e gira il paese vincendo a man bassa tornei e competizioni. Tanto da guadagnarsi, su diretta nomina del re, il titolo ambitissimo di Gendarme du roi. Ma più acuta della punta del suo fioretto si manifesta in questo periodo la sua passione per la musica. Poco si sa, purtroppo, della sua formazione musicale: forse il suo il suo primo maestro di composizione è stato un gesuita di passaggio a Guadalupa, forse un violinista dell’Opéra di Parigi in visita a Santo Domingo gli ha regalato il suo primo violino. Sta di fatto che a vent’anni Joseph è un violinista di talento eccezionale e diventa ben presto una star della vita musicale parigina: si esibisce nei salotti alla moda, suona a corte insieme a Maria Antonietta, partecipa agli «agoni musicali» cittadini e li stravince, sostituendo la spada con l’archetto. Ma non basta. Si misura anche con l’arte della composizione: scrive opere, sinfonie, concerti e quartetti (ammirati, e a volte copiati, da Mozart, Haydn e Beethoven), si dedica alla direzione d’orchestra e all’organizzazione musicale. Portando orgogliosamente la sua pelle nera in un mondo bianchi, lottando senza sosta contro i pregiudizi razziali della buona società parigina.

Accusato da Marat
Una ascesa irresistibile che si interrompe soltanto quando la sua strada si incrocia con quella della Grande Storia. Spinto dal suo attivismo febbrile prima sposa la causa della Massoneria, poi partecipa al movimento per l’abolizione della schiavitù e alla fine diventa un fedelissimo di Filippo d’Orleans: accanto a lui attraversa la stagione della Rivoluzione, combattendo per la patria, ma patendo anche l’onta del carcere, ora esaltato come patriota, ora accusato – da Marat in persona – di essere un contro rivoluzionario. Insomma una vita sempre spaccata in due metà che si conclude mestamente, in solitudine e povertà, alle soglie del nuovo secolo. Ma una traccia della sua esistenza giunge a lambire le coste del Nuovo Mondo: John Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti d’America, di passaggio a Parigi nel 1770, annota nel suo diario: «È l’uomo più acclamato in Europa nell’equitazione, nella corsa, nel tiro al bersaglio, nella scherma, nel ballo e nella musica. Saprebbe centrare ogni bottone del soprabito di un comandante senza sbagliare un colpo».