Resta sempre motivo di piacere vedere tradotti i testi che riguardano la nostra storia dell’architettura, soprattutto se provengono da un architetto tra i più antidogmatici del Movimento Moderno e figura di primo piano della Grande Vienna, quale fu Josef Frank. Parliamo della sua tesi di laurea discussa al Politecnico (Technischen Hochschule, altrimenti detta Bauschule) nel 1910 dal titolo Über die ursprugliche gestalt der kirchlichen bauten des Leon Battista Alberti, reso più prosaicamente con L’architettura religiosa di Leon Battista Alberti (Electa, «documenti di architettura», pp. 107, euro 39,00). Curata da Caterina Cardamono, che ne diede, con Francesco dal Co, un’anticipazione nella mostra Josef Frank interprete di Leon Battista Alberti, tenutasi nel maggio scorso alla Casa del Mantegna di Mantova, la pubblicazione è pregevole, oltre che per l’analisi circostanziata dei capolavori albertiani, anche per le venti tavole a tecnica mista con la quale è illustrata.
Della talentuosa prova di Frank già si conosceva l’esistenza, fin da quando la Technischen Universität di Vienna, dove la tesi è conservata, la rese disponibile nelle diverse retrospettive internazionali che a Frank furono dedicate, a iniziare dalla memorabile mostra nel 1965 a Vienna presso la Società Austriaca per l’Architettura, con la quale si celebrò, due anni prima della sua morte, il suo ottantesimo compleanno. Tuttavia mai la Dissertation è stata studiata con l’attenzione che avrebbe meritato, come ora s’è fatto, giungendo da un lato a spiegare l’influenza che questa ebbe nel definire le basi teoriche dell’architettura di Frank, e i suoi riflessi negli ambienti culturali viennesi, dall’altro a far conoscere quale fosse la ricezione dell’architettura rinascimentale agli inizi del secolo scorso.
Iniziamo col dire che il tour d’Italie di Frank, con tappe Firenze, Mantova, Rimini e Fano, si collega a quel diffuso interesse per l’architettura italiana documentato dalle tesi che prima di lui presentarono Oskar Strnad e Oskar Wlach, prima compagni di Frank alla Bauschule e poi suoi soci: Strnad con una tesi sui principi della decorazione nell’arte paleocristiana, Wlach con una sulle incrostazioni di colore nell’architettura protorinascimentale. Il mentore per tutti loro era stato Karl König, insegnante di composizione e poi rettore del Politecnico (dove Frank si iscrisse nel 1903), il quale decretò l’importanza e la necessità dell’insegnamento della storia. È lì, nella Prima Scuola dell’Impero, che Frank comprese il valore degli «eterni canoni classici», e poi, con il Konstructeur Max Fabiani – anche lui insegnante al Bauschule – il significato dell’ornamento, lontano da qualsiasi precetto storicista, com’era possibile ammirare, da un lustro prima, nella Ringstraße grazie a Ferstel, Hansen, Semper.
Spiegò bene tutto questo Marco Pozzetto, il più ferrato storico dell’architettura della Mitteleuropa. È grazie alle sue pionieristiche ricerche, nonostante l’ostracismo che sempre gli riservò parte del nostro mondo accademico, se oggi possiamo ordinare con coerenza l’opera di Frank, della quale la dissertazione è una componente fondamentale. Questo debito è reso evidente dalla curatrice nelle note della sua essenziale e utile biografia dell’architetto austriaco, nella quale è spiegato l’uso «operativo» che, nello stesso anno del dottorato, Frank farà dei motivi decorativi rinascimentali (ma non solo): migrati dai monumenti albertiani all’appartamento dei coniugi Tedesko o nella Scuola di Ginnastica Strömberg-Palm.
Il 1910, oltre a essere l’anno della tesi di Frank, è anche quello della fondazione del Werkbund austriaco (emanazione della Lega di Arti e Mestieri tedesca per avvicinare artigianato e industria), della pubblicazione a Berlino della prima monografia di Wright e della vista della casa, quasi conclusa, sulla Michaelerplatz di Loos. Frank non restò indifferente a nessuno di questi episodi: fu tra i fondatori del Werkbund, condivise con Wright che la decorazione è portatrice di significati simbolici e guardò a Loos con ammirazione anche se, come confesserà alla fine della carriera, non ne condivideva la «visione aristocratica». Friedrich Achleitner, in questo senso, ha spiegato bene la differenza tra i due: mentre «negli spazi di Frank si respira in una certa maniera aria nuova», in Loos si vive «l’atmosfera di un fondamentalismo krausiano».
Tuttavia con l’architetto del Café Nihilismus il nostro condivide l’idea che i «contenuti eterni» dell’architettura sono custoditi nell’antichità, anche se il primato di «fondatore» dello «stile moderno» Frank lo assegna a Leon Battista Alberti, il più erudito conoscitore della tradizione classica. Lo «stile moderno», infatti, nasce secondo Frank nel 1420, come dirà in un’autointervista del 1927. Davanti a Santa Maria Novella o a San Francesco a Rimini sottoscrive la tesi di Loos che le architetture del passato sono «le uniche che comprendiamo e che possono commuoverci» perché «ovvie», chiare nelle forme e nei significati simbolici. Frank guarda all’edificio rinascimentale come a un modello teorico, «senza che nessun entusiasmo nazionale o costruttivo ci debba venire in aiuto» (Loos).
Con il De re aedificatoria alla mano, posati non senza osservazioni i saggi degli storici – da Burckhardt a von Geymüller –, Frank reinterpretò il concetto di utilitas albertiana a contrasto rispetto all’interpretazione «funzionalista» e «costruttivista» datagli dai teorici della Neue Bauen. Egli concordava con Alberti che «dinanzi all’opera degli dei» noi restiamo «incantati per la bellezza» e non certo per l’utilità. La venustas di Frank non è, però, idealizzazione delle forme, ma un approccio anticonformista e inclusivo (Czech), identico a quello che egli ha nei confronti della vita. L’architettura accoglie tutto ciò che è il prodotto della realtà quotidiana, incluso «il cattivo gusto del nostro tempo – dirà in una conferenza nel 1948 – che, se non altro, è almeno vitale». La Dissertation contiene in abbozzo diverse elementi del pensiero originale di Frank: un produttivo passo in avanti verso la migliore conoscenza della sua opera nel suo continuo misurarsi con le lezioni della storia e «l’intensità dell’antica tradizione».